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domenica 27 marzo 2011

Io e Marco

Marco è nato in uno sfavillante pomeriggio di maggio, uno di quelli che anticipano l’estate; umido, impregnato di polvere e polline, con il cielo infuocato da pennellate di carminio e ambra, un tripudio di colori con cui il giorno si sforzava inutilmente di resistere alla notte. Avrei voluto che fosse quello, il destino di Marco. Colori, frutti maturi e vento di scirocco. 
Invece venne la notte, appassirono i campi e l’estate passò, facendo posto a un autunno grigio, sferzato di pioggia e tremante di vento.
Quando arrivò Dicembre, l’inverno gelò ogni residua speranza. Cecità assoluta, Marco non avrebbe mai conosciuto per davvero il mondo, in nessuna stagione; non avrebbe conosciuto le forme, i colori, le stelle e la luccicante trasparenza del mare inondato dal sole.
Alle elementari lo aiutavo con i compiti. Quel pomeriggio mio fratello parlava poco e ascoltava ancor meno, limitandosi a fissare i palazzi fuori dalla finestra come se li vedesse davvero.
La maestra gli aveva assegnato il primo, crudele tema della sua carriera scolastica: descrivi la tua famiglia, dicevano i caratteri incerti sul foglio bianco.
Sospirando, mi accinsi a scrivere per lui, ma la voce di Marco mi bloccò. “Non mi chiedi di descrivervi?” chiese.  Io annuii, deglutendo a fatica.
“Papà è alto come uno strillo della nonna, e ha i capelli biondi come il sole che mi scotta la pelle d’estate.” La sua voce suonava limpida e serena. “La mamma è morbida, piccola e calda, e sa di buono… Tu invece sei triste per me. Sei così triste che percepisco la tua tristezza anche quando non mi sei accanto. Ma vedi, non ce n’è motivo.”
Da quel giorno non ho mai più smesso di scrivere per Marco. Scrivo per capire le verità che non so accettare, perché che mio fratello vede più di noi. Oltre di noi.

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