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martedì 29 marzo 2011

Muori per me - Karen Rose

A novembre la metropolitana di Roma era tappezzata da manifesti altezza uomo raffiguranti questa copertina.
Devo ammettere che l’immagine e il titolo mi hanno intrigata fin da subito, facendomi catalogare il libro tra quelli appartenenti al mio genere preferito (un ibrido tra romance e thriller); la casa editrice poi, Leggere Editore, è sinonimo di garanzia per chi ha gusti simili ai miei.
E in effetti la bellezza e l’unicità di questo romanzo di Karen Rose sta proprio in questo: l’autrice riesce nella non facile impresa di intrecciare un ottimo thriller – di  quelli alla Stieg Larsson per intenderci, tanto per citare il più famoso del genere – con un romance di tutto rispetto, per certi versi perfino troppo romantico e smielato, cui il pericolo corso costantemente dai protagonisti regala un tocco di eccitazione in più.
La Rose va perfino oltre, osando un paio di scene di sesso piuttosto spinte e dettagliate, che sarebbero godibili se solo non sconfinassero così palesemente in una svenevolezza degna di un Harmony.
In una trama che si ramifica in parecchie storie diverse, apparentemente estranee l’una all’altra e che depistano abilmente il lettore, un assassino psicopatico uccide le sue vittime utilizzando sofisticati strumenti di tortura medievali, al solo scopo di ritrarli negli angosciosi istanti della morte e fissare le immagini della loro sofferenza nella grafica di un nuovo videogioco pronto a essere lanciato sul mercato.
Toccherà al detective Vito Ciccotelli (ecco, sui nomi avrei qualcosina da ridire…), bel ragazzo di origini palesemente italiane, dipanare una matassa di indizi che portano a una personalità folle, complessa ed estremamente pericolosa, che metterà in pericolo anche la vita del nuovo amore di Vito, la bionda archeologa Sophie.
Sulla parte thriller niente da eccepire: narrazione eccellente, sintetica ed evocativa, che sa regalare la giusta dose di pathos e apprensione tenendo il lettore sulla corda soprattutto nel finale, quando la situazione precipita e poche ore in più o in meno possono fare la differenza, cambiando la sorte dell’ultima vittima. Sono sicura che questo libro piacerà sia ai fan della Cornwell che a quelli del giallo svedese tanto di moda ultimamente, anche per l’approfondimento psicologico dei personaggi, molto credibile, e per la naturale umanità dei caratteri.
L’elemento innovativo rispetto a questi ultimi è senza dubbio l’approfondimento della storia d’amore tra i protagonisti, che, seppur perfettamente incastrata all’interno della trama, a parer mio non funziona fino in fondo. È poco credibile, eccessivamente smielata, e inoltre lo stacco di registro tra le due anime del libro è troppo netto, lascia il lettore un po’ spiazzato… voglio dire, è come passare dalla Cornwell a un Harmony, come se a scriverlo fossero state due autrici diverse!
Peccato però, perché poteva essere un esperimento molto ben riuscito, in grado di mettere d’accordo due generi molto amati e raramente conciliati (e conciliabili).
Tuttavia Muori per me rimane un romanzo intenso, godibile ed emozionante, adattissimo alla lunga estate che si prepara ma anche alle piovose serate di primavera da passare in casa.
Ultima, piccola informazione che interesserò molto i fan del libro: questo romantic-suspance è il primo di una trilogia denominata "Daniel Vartanian", dal nome di uno dei protagonisti (gli altri due volumi si intitolano Scream for me e Kill for me).


Ecco il booktrailer:



domenica 27 marzo 2011

Io e Marco

Marco è nato in uno sfavillante pomeriggio di maggio, uno di quelli che anticipano l’estate; umido, impregnato di polvere e polline, con il cielo infuocato da pennellate di carminio e ambra, un tripudio di colori con cui il giorno si sforzava inutilmente di resistere alla notte. Avrei voluto che fosse quello, il destino di Marco. Colori, frutti maturi e vento di scirocco. 
Invece venne la notte, appassirono i campi e l’estate passò, facendo posto a un autunno grigio, sferzato di pioggia e tremante di vento.
Quando arrivò Dicembre, l’inverno gelò ogni residua speranza. Cecità assoluta, Marco non avrebbe mai conosciuto per davvero il mondo, in nessuna stagione; non avrebbe conosciuto le forme, i colori, le stelle e la luccicante trasparenza del mare inondato dal sole.
Alle elementari lo aiutavo con i compiti. Quel pomeriggio mio fratello parlava poco e ascoltava ancor meno, limitandosi a fissare i palazzi fuori dalla finestra come se li vedesse davvero.
La maestra gli aveva assegnato il primo, crudele tema della sua carriera scolastica: descrivi la tua famiglia, dicevano i caratteri incerti sul foglio bianco.
Sospirando, mi accinsi a scrivere per lui, ma la voce di Marco mi bloccò. “Non mi chiedi di descrivervi?” chiese.  Io annuii, deglutendo a fatica.
“Papà è alto come uno strillo della nonna, e ha i capelli biondi come il sole che mi scotta la pelle d’estate.” La sua voce suonava limpida e serena. “La mamma è morbida, piccola e calda, e sa di buono… Tu invece sei triste per me. Sei così triste che percepisco la tua tristezza anche quando non mi sei accanto. Ma vedi, non ce n’è motivo.”
Da quel giorno non ho mai più smesso di scrivere per Marco. Scrivo per capire le verità che non so accettare, perché che mio fratello vede più di noi. Oltre di noi.

sabato 26 marzo 2011

Pensieri notturni


"Taeko capì immediatamente che quell'essere 
che aveva tanto amato
 era soltanto una chimera nata dai suoi stessi sogni.

"

Mishima Yukio, L'école de la chair


Esiste forse frase più vera? 
In fondo è uno dei pericoli maggiori che corriamo noi sognatori. E' impossibile cullare a lungo i propri sogni senza cedere alla tentazione di vederli incarnarsi in una persona reale, fatta di carne e ossa, che possa adempiere concretamente ai bisogni, alle attese, all'impellente e tormentoso bisogno d'amore che li ha generati. 
La natura ci insegna che l'uomo riesce ad amare follemente solo le creature che genera e che l'hanno generato... accade con i figli, accade con i sogni e con gli amori. In ogni essere amato, sia egli un amico, un fratello o un amante, c'è sempre, inevitabilmente, un po' di noi.
Costruiamo l'altra persona come faremmo con una bambola di pezza nuda e incompleta. Ci piace la forma della tua testa, ci piace la sfumatura perlescente della sua pelle, ma ancor di più adoriamo l'abito con cui la vestiremo, la parrucca che le faremo indossare. 
E ameremo follemente il modo in cui pian piano, giorno dopo giorno con infinita e immutabile pazienza, le avremo insegnato ad amarci.
Perché cos'è in fondo l'amore, se non un atto di creazione reciproca?

mercoledì 23 marzo 2011

Riposerò quando sarò morta

Ultimamente aggiorno poco perché sto lavorando tantissimo... il lavoro che faccio mi piace, certo, ma quando raggiungo certi ritmi mi sento sempre un po' scazzata e soprattutto mi viene l'allergia al computer, se lo vedo anche solo 5 minuti più del necessario sclero! 
Continua la fase iperattiva: mille progetti, mille idee, decine di incombenze tra la promozione di un libro e l'uscita dell'altro, la fiera del libro di Torino che incombe (non vedo l'ora!!!) e alcune proposte stuzzicanti che vorrei accettare ma che ho paura di non riuscire a portare a termine come si deve, visto il poco tempo a mia disposizione.
Perché io sono una perfezionista. Se una cosa la faccio dev'essere fatta come Dio comanda, altrimenti niente. 
Ragion per cui sono una personalità fortemente incline all'esaurimento.
Sto cercando di smussare questo lato del mio carattere, e in parte ci sto riuscendo, ma la voglia di fare mille cose e tutte bene credo non mi abbandonerà mai. 
E poi quello che mi manca più di tutto in questo periodo è il tempo per scrivere... ho scritto un paio di racconti per dei concorsi, ma il nuovo romanzo che avevo in mente viaggia ancora in alto mare. E se accetto le proposte ricevute mi sa che ci viaggerà ancora per parecchio. 
Mi dispiace, ma pazienza. 
Ora come ora mi da preoccupazione la questione soldi
He si, perché tutto questo lavoro extra non si traduce mica in altrettanto guadagno... anzi, è già tanto se riesco a tirare avanti! Tra i miei obiettivi di questo 2011 c'è assolutamente quello di avere finalmente uno stipendio fisso... che cavolo, direi che l'età ce l'ho!

E poi vorrei (nell'ordine che mi viene in mente) le seguenti cose:
- Comprarmi una casetta piccina picciò tutta mia (è da quando sono bambina che con la mente fantastico su come arredarla!);
- Iscrivermi all'università (sì, di nuovo. No, non vi dico a che facoltà... per scaramanzia dico solo che ci ho pensato bene, che ne ho voglia e sarebbe l'ennesimo "investimento" sul mio futuro);
- Ricominciare a studiare il francese (non chiedetemi perché);
- Trasformare la mia benedetta tesi in un altrettanto benedetto saggio da mandare alle stampe;
- Pubblicare il mio terzo romanzo e scrivere il quarto (sono prolifica, lo so);
Che altro? Forse recuperare un po' la vita sociale, ma ora come ora la vedo difficile... Mi sento come quando all'università ero sotto esame e mi riducevo a un relitto umano: capelli sporchi, faccia sfatta, brufoli, vestiti sciatti da casa e chi più ne ha più ne metta... Solo che poi, dopo l'esame, rifiorivo alla grande e mi davo alla pazza gioia... ora mi sembra un esame perenne! Mahhh!
Comunque il mio nuovo mantra è:
RIPOSERO' QUANDO SARO' MORTA.
Che poi in fondo mi sembra giusto.
Vi lascio con una canzone che ultimamente ascolto sempre e che amo moltissimo... è in francese, perciò la amo e la canticchio ancor di più! 

Non, Je ne regrette rien (Edith Piaf)



Non! Rien de rien ... 
Non ! Je ne regrette rien
Ni le bien qu'on m'a fait
Ni le mal tout ça m'est bien égal !

Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette rien...
C'est payé, balayé, oublié
Je me fous du passé!

Avec mes souvenirs
J'ai allumé le feu
Mes chagrins, mes plaisirs
Je n'ai plus besoin d'eux !

Balayés les amours
Et tous leurs trémolos
Balayés pour toujours
Je repars à zéro ...

Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette nen ...
Ni le bien, qu'on m'a fait
Ni le mal, tout ça m'est bien égal !

Non ! Rien de rien ...
Non ! Je ne regrette rien ...
Car ma vie, car mes joies
Aujourd'hui, ça commence avec toi !

venerdì 18 marzo 2011

La vita accanto - Mariapia Veladiano

La vita accanto, Einaudi Stile libero
Quando ho finito di leggere La vita accanto, romanzo d’esordio di Mariapia Veladiano, ho pensato che quest’anno, come in altre occasioni, il prestigioso Premio Calvino non è andato sprecato.
L’opera prima della scrittrice vicentina, infatti, è ben più di una storia autenticamente commovente, raccontata in maniera piacevole. Tanto per cominciare, dimostra come non sia necessario riempire centinaia di pagine per trasmettere il senso di una vita e di un’infanzia spezzate, segnate dal dolore della diversità e da un riscatto difficile, perseguito con tenacia; lo dimostra racchiudendo uno sfaccettato universo di emozioni e personaggi in un romanzo di appena centocinquanta pagine, dallo stile pulito e raffinato, semplice ma al tempo stesso evocativo.
A tratti, soprattutto negli ultimi capitoli, la prosa sembra farsi poesia, versi che seducono e incantano con la forza di parole che sono anche le nostre, quelle che usiamo quotidianamente, accostate con tale maestria che il risultato è una sinfonia perfetta.
Del resto la Musica ci insegna proprio questo: non è necessario avere a disposizione un patrimonio infinito di note, basta possedere l’arte di combinarle tra loro, creando qualcosa di unico. Un’arte che alla Veladiano certo non manca. La Musica è un tutt’uno con il romanzo, è una presenza discreta che si avverte dapprima solo sullo sfondo, poi sempre più al centro di una trama che pervade e trasforma, riscrivendone il finale come si farebbe con una favola d’altri tempi. La Musica salva la protagonista, Rebecca, da una vita di colpa e solitudine.
Contaminata da una forma di bruttezza fuori dal comune, Rebecca fin dalla prima infanzia scopre cosa vuol dire convivere con un aspetto ripugnante: niente uscite con i genitori, nemmeno per andare al luna-park, niente carezze e dimostrazioni d’affetto, niente asilo né compagni di gioco.
Affascinanti e realistici sono i personaggi che ruotano attorno al ristretto mondo della ragazzina, verso i quali è difficile non provare una qualche forma di simpatia o antipatia: odiose e insieme commoventi le figure della madre, affetta da una grave forma di depressione post-partum che la porta a chiudersi in un mondo tutto suo, e del padre, debole per vocazione, insensibile ai bisogni della figlia per necessità; ambigua e conturbante è la zia Erminia, donna egocentrica ed egoista, morbosamente attaccata al fratello; amorevoli e materne la tata Maddalena e la maestra Albertina. E poi la grassa e logorroica Lucilla, amica pettegola quanto fedele, il maestro De Lellis e sua madre, vecchia stramba e arzilla.
Non mancano i colpi di scena, perché la realtà cela molto più di quello che rivela.
La Veladiano si dimostra abile nel mantenere viva l’attenzione del lettore con un ritmo incalzante, alternando abilmente scene e tempi diversi, passando con naturalezza da un registro linguistico all’altro, da quello popolare della tata Maddalena a quello aulico di un diario poetico.
Sullo sfondo, la provincia italiana moralista e ben pensante, così ipocrita da sfiorare la caricatura, i cui paesaggi vengono trasfigurati da atmosfere oniriche che ricordano molto quelle Zafón.
Anche Vicenza sembra avere un’anima, volubile e capricciosa, essenzialmente spietata, un’“anima nera come le acque del Retrone”, il fiume che la attraversa.
La Musica lega luoghi e personaggi a un sottile filo di malinconia, dimostrando come la bellezza possieda una profondità che poco ha a che fare con l’estetica. In una società come la nostra, dominata da un estetismo edonistico, in cui il piacere è merce inflazionata, non può meravigliare se la bruttezza sia considerata alla stregua di una malattia o di un crimine, vergognosa perché colpevole di offendere la sensibilità degli uomini molto più degli scandali sessuali e della corruzione dei potenti.
In un mondo in cui si è perso il senso di ciò che è contro natura, ancora una volta a rimetterci di più sono le donne. Viene da pensare che se Rebecca fosse nata uomo, probabilmente la sua vita sarebbe stata diversa. Non bella forse, ma sensibilmente migliore.
Perché fin dalla notte dei tempi, da Kant a Rousseau – solo per citare alcuni tra i filosofi più “illuminati” di tutti i tempi – è un dato di fatto che per la donna l’avvenenza fisica sia quasi fondamentale per la sopravvivenza sociale, molto più che per un uomo. E a ben poco sono valsi anni di battaglie femministe, di reggiseni bruciati e concorsi di bellezza boicottati, se ancora oggi, anche in Paesi civili e democratici come l’Italia, le donne valgono principalmente per come appaiono.
L’unica pecca de La vita accanto, a mio avviso, sta in una conclusione troppo frettolosa, che forse meritava più spazio e un maggiore approfondimento. Nulla toglie, però, al fascino di un libro molto attuale, ben scritto, che ha il raro pregio di commuovere rifuggendo da stereotipi e semplificazioni.
Da leggere, assolutamente.

martedì 15 marzo 2011

Maya, Futuro & Felicità

Spesso penso che dovrei smetterla di farmi sempre domande sul perché e su percome e vivermi fino in fondo le cose che mi succedono, gli stati d'animo. Questo 2011 finora è stato una meraviglia. 
Per la prima volta sono felice e serena per più di due settimane consecutive, e per la prima volta so esattamente il motivo, cosa che in un certo senso mi permette di capire e "controllare" la cosa. Dovrei smetterla di farmi domande, e godermi semplicemente il momento. 
In fondo cos'è la vita, se non una sequenza infinita di momenti? E quanto contano il futuro e il passato, se sono in grado di rovinarci il presente? Viviamo come se dovessimo farlo per sempre, quando sappiamo benissimo che non è così, che ogni respiro potrebbe essere l'ultimo. E ricordiamo con un'intensità tale che a volte il passato si fa così concreto da farci indugiare in lui come se fosse una terra felice.
Maledetta memoria. A che serve ricordare, se poi ci impedisce a vivere come si deve il presente? A che serve pensare al futuro, se nemmeno sappiamo se lo vivremo o no? 
Eppure la maggior parte della gente non fa altro che dimenarsi tristemente tra passato e futuro, dimenticandosi completamente del presente. Infatti nemmeno Leopardi - che di felicità se ne intendeva poco - l'aveva capito: la felicità è sempre passato o futuro, mai presente, scriveva nel suo Zibaldone
La felicità effimera quella sì... semplicemente è molto più facile essere felici nel passato e nel futuro che non nel presente; nel passato perché si tende naturalmente a rimuovere il negativo che c'è stato, nel futuro perché la speranza è sempre l'ultima a morire. 
Io ho deciso che voglio essere felice nel presente. E lo sono, non importa come e perché. 
Ultimamente mi inquieta molto tutta la questione dei Maya e della fine del mondo, che pare essere anticipata al 5 maggio di quest'anno. Ok che non ci credo, però oggi mi è venuto da chiedermi cosa farei se sapessi per certo che è vero. Voglio dire, voi cosa fareste se sapeste con certezza che tra due mesi finirà tutto quanto?! 
Secondo me cose molto diverse da quelle che facciamo tutti i giorni, molto spesso diverse anche dal nostro stile di vita, dalla strada che abbiamo intrapreso, dalle nostre personali convinzioni. 
Io farei cose che ora come ora non mi sognerei mai di fare... è buffo come cambierebbero le nostre prospettive, le nostre priorità, se il futuro non esistesse. Questo mi fa pensare che forse non vivo autenticamente, non vivo come vorrei, per semplice paura delle conseguenze. Chissà. 
Ma non avevo detto all'inizio del post che dovevo smetterla di imparanoiarmi?! Si vede che non son capace! Ma sono serena e tanto basta... in più mi succede spessissimo che al mattino mi sveglio carica, piena di voglia di fare, di lavorare, felice che inizi una nuova giornata... è troppo bello! 

domenica 13 marzo 2011

Sull'eternità dell'Amore


Ne avevo già parlato, ma siccome è un argomento che mi appassiona ne parlerò ancora. Riflettendoci (eh sì, non ho di meglio da fare... soprattutto di notte!) sono giunta alla conclusione che ci sono solo due modi per far sì che un sentimento sia eterno. 
Uno è accettare che cambi, che nel corso del tempo e della vita si evolva, trasformandosi molto spesso in un qualcosa di estremamente diverso da ciò che era all'inizio. 
L'esempio più lampante a mio avviso è l'amore che proviamo nei confronti dei genitori, che passa attraverso infinite fasi - dipendenza, bisogno, ribellione, insofferenza, tenerezza ecc. - per poi approdare a qualcosa di molto diverso da ciò che era all'inizio: da un bisogno di cura, tipico dei bimbi, si passa alla voglia di curare, quando ci si occupa di genitori non più giovani e magari invalidi. 
Eppure il nocciolo del sentimento, quel particolare tipo di amore che è quello filiale, rimane lo stesso pur cambiando. Di qui sta il paradosso e la meraviglia dei rapporti umani. La stagnazione dei sentimenti invece è un pericolo, perché se un sentimento non evolve, non si trasforma, presto o tardi diventa malato. 
Un cinquantenne che dipende dai genitori, che si fa curare da loro, tanto normale poi non è; così come non lo sono quei genitori che si rifiutano di accettare la crescita dei figli, continuando imperterriti a invadere la loro vita come se si trattasse di bambini incapaci. 
In questo caso il discorso fila liscio come l'olio, ma sarà lo stesso per l'amore passionale, quello che lega un uomo e una donna per tutta la vita? In parte credo di sì. 
Penso che i rapporti fallimentari sia quelli incapaci di trasformarsi, quelli che si incrinano quando la passione scema, quelli che non reggono la routine, quelli che non sanno accettare la vita come viene. In parte però non so... l'amore reca con sé una tale dose di mistero che difficilmente potrà essere svelata del tutto.

Il secondo modo per far sì che un sentimento duri per sempre è interromperlo quand'è al suo culmine. Può sembrare contraddittorio, ma è così. Un amore non vissuto fino in fondo dura per sempre, la storia in cui siamo stati abbandonati col cuore infranto, ancora innamoratissimi, è destinata a rimanere impressa nella nostra mente. 
La fine, la morte di un amore, non gela solo il nostro cuore; è come se cristallizzasse l'attimo e le sensazioni a esso collegate, conservandole per sempre. Questo è quello che penso, questo è quello che ho sempre osservato in giro. 
Difficilmente uno va a pensare che la tizia che l'ha lasciato col cuore infranto, se la storia fosse continuata, un giorno sarebbe stato lui a stancarsi di lei, a mandarla al diavolo stufo dei continui tradimenti. 
Uno pensa che sarebbe durata per sempre solo perché non sa come sarebbe andata a finire davvero, senza una fine "prematura". 
E qui chiudo, perché mi sa che ho pontificato abbastanza per oggi!

giovedì 10 marzo 2011

Scende la pioggia...

Io amo la pioggia. So che può sembrar strano, che a tratti può anche essere considerato sinonimo di un animo triste e malinconico (cosa che per altro in parte è vera), ma io impazzisco per l'odore della pioggia, per quel cadenzato ticchettare che scandisce e dilata il tempo. 
La pioggia l'annusi nell'aria, senti come la sua fragranza contamina la natura e il mondo intorno... tutto ha un odore diverso quando piove. E fin da piccolo inconsciamente sai riconoscere l'odore della terra bagnata, dei capelli bagnati, del legno e del vento umidi, sai come l'aria è carica di elettricità e di attesa quando si sta preparando un temporale. 
Alle volte mi incanto a guardar scendere la pioggia fuori dalla finestra. Mi verrebbe voglia di correre in strada e danzare col naso all'insù... e lo farei anche, se non temessi di esser presa per pazza. 
Una volta, tempo fa, su una rivista lessi che secondo uno studio camminare sotto la pioggia avrebbe come effetto quello di aumentare il buon umore. Be', io ci credo a questa cosa, perché a me succede esattamente così! Mi mette allegria zompettare tra le pozzanghere con un ombrello colorato, sentire le gocce che picchiettano sul tessuto teso e sui tetti delle case, vedere le luci delle auto per strada diluite e splendenti nel riflesso dell'acqua. 
Certo, se sono di corsa o devo uscire per forza sotto il diluvio universare, allora sì, mi infastidisco anch'io... ma di per sé la pioggia non è niente male. E per leggere o scrivere è in assoluto il mio tempo metereologico (si dice così?! Boh...) preferito. 
Per scrivere perché la pioggia mi ispira. I vetri appannati, striati da rivoli lenti e sottili che sembrano lacrime, mi riportano indietro al passato, mi stimolano a riflettere e a perdermi in quel particolare mix di pensieri, ricordi, sensazioni e tristezza che fa la felicità di ogni aspirante scrittore. 
E poi mi fa sentire protetta, stretta nel bozzolo caldo della mia stanza, dove sono circondata da tutto ciò che amo. Per leggere poi la pioggia è l'ideale... regala concentrazione e la fantasia può spaziare a suo piacimento. Servono forse altri motivi per amarla?

martedì 8 marzo 2011

Parlando d'Arte, Jack Vettriano (Fife, 1951)

Io non sono un'esperta d'arte. 
Anzi, è bene chiarire che ci capisco poco e che non conosco altra categoria in base alla quale giudicare un'opera d'arte se non il mio gusto personale. 

O meglio, il mio senso del bello. 
Nel mio piccolo mi reputo un'esteta, tutto ciò che secondo me è bello mi affascina e mi rapisce.
Dovendo fare la venale, ad esempio, preferisco mille volte un uomo bello a uno ricco. 
I miei canoni sono piuttosto classici - simmetria, perfezione, sensualità - e riesco a distinguere il bello "oggettivo" da ciò che mi affascina pur non essendo propriamente perfetto.

Tutta questa premessa per dire che nel parlare di arte, e nel "presentarvi" i miei tre pittori preferiti, non parlerò di impressionismo, di epoca barocca, di classicismo o pop-art. 

Parlerò di ciò che mi attrae, delle opere che hanno catturato la mia attenzione e hanno saputo incantarmi; ma soprattutto, parlerò delle opere che mi emozionano, che mi regalano pensieri, sogni, atmosfere ed emozione. 
Le opere che mi fanno provare desiderio e scatenano la mia fantasia, ispirando talvolta i miei scritti. 

Il primo di questi artisti si chiama Jack Vettriano. 

Dire che lo amo non rende l'idea. 
Io semplicemente adoro il suo tratto deciso e attento ai particolari, soprattutto per quanto riguarda le figure femminili, grandi protagoniste della sua arte; le atmosfere misteriose e cariche d'attesa che sa evocare, che ricordano molto gli anni Cinquanta, i locali fumosi e la seduzione d'altri tempi; amo gli attimi sospesi che ritrae, il modo in cui riesce a catturare l'istante eterno che non è il prima né il dopo, ma è il culmine del pathos e dell'attesa, quando ciò che aneliamo sta per accadere. 
Amo gli abiti dal sapore vintage, l'eleganza delle posture, l'immobile sensualità dei gesti, la simmetria che regola una passione studiata e padrona di sé, mai scomposta o indecente. 
Mi illanguidisco nell'osservare il modo in cui sa ritrarre le donne, l'amore con cui sottolinea i dettagli. 
Le sue muse sono donne brune - in tutta la produzione ci saranno forse due bionde - eleganti e sofisticate. 
Indossano biancheria nera, reggicalze e decollété col tacco.
Hanno movenze pigre e feline, si lasciano catturare, apparentemente non sono mai loro a condurre il gioco, eppure danno sempre l'impressione di avere loro il controllo della situazione. 
Ho scelto diverse opere per ornare il post (forse troppe, ma quando si tratta di Vettriano non sono in grado di fare una selezione. 
Mi piace tutto, in barba a quei critici che lo definiscono populista e privo di talento).

E' uno dei pittori viventi più quotati al mondo, e si calcola che le riproduzioni delle sue opere fatturino ancora di più degli originali. 
I dipinti che proporrò hanno come filo conduttore la seduzione
Ho di proposito scartato i più famosi, perché lo spazio è poco e certo non posso occupare l'intero blog, anche se lo vorrei. 

Spero che questa "galleria"
seduca anche voi 
come ha fatto con me...

Attualmente il mio preferito!

domenica 6 marzo 2011

Io non soffro per amore - Lucia Etxebarria

Lo vidi per caso in offerta alla Feltrinelli proprio il giorno in cui chiamai il mio ex per chiedergli spiegazioni dopo due settimane di silenzio. Lo interpretai come un segno e lo comprai, sebbene diffidassi di quel titolo che faceva tanto “manuale-idiota-per-novelle-bridget-jones”. Invece è tutt’altro. 
Certo è scritto con brio, humor e leggerezza, tuttavia affronta temi seri e interessantissimi, per lo più inerenti alla psicologia e alla sociologia: da Freud e i suoi complessi di Edipo&Elettra alla teoria dell’attaccamento di Bowlby, dal “mito della bellezza” di Naomi Wolf  a un’analisi estremamente lucida e disincantata dei modelli comportamentali proposti da telefilm, soap e quant’altro entri nelle nostre case attraverso la tv e gli altri media. 
Un libro estremamente interessante che tratta di amore in modo realistico, lontano anni luce dagli stereotipi e dalle melensaggini cui siamo abituate; un’autrice competente e diretta, che parla all’intelligenza e al buon senso delle donne, offrendo loro un’unica grande certezza, da non smarrire mai: SE UNA RELAZIONE NON TI RENDE FELICE, ALLORA NON TI SERVE. Punto.

Riporto alcuni brani del capitolo in cui si parla di violenza morale e psicologica. 
Sono parole che mi hanno raggelata e impaurita non appena le ho lette la prima volta; ci è voluto tutto il mio coraggio per identificarci la mia esperienza e darle finalmente un nome, per vedere chiaramente quello che per mesi non sono riuscita a comprendere né a spiegare a nessuno, tanto meno a me stessa. Intuivo che qualcosa non andava, ma questo certo non serviva a farmi stare meglio né a cambiare la situazione. Non sempre un uomo con gravi problemi psicologici e relazionali - sia egli padre, fidanzato o marito - usa la violenza fisica per imporsi sulla sua donna; sempre più spesso, soprattutto quando si tratta di uomini civili, dotati di una certa cultura e di buone maniere, si fa ricorso a una forma di violenza più sottile, subdola e spesse volte invisibile. Ma non per questo meno pericolosa. 
Anzi, forse lo è ancora di più, perché si tratta di un nemico invisibile, mascherato di normalità, che la donna abusata, sempre più insicura e confusa, fa fatica a riconoscere. 
E le conseguenze spesso sono devastanti.

***

 Violenza morale o psicologica

La maggior parte delle volte neanche le vittime realizzano di subire un maltrattamento. Per questo motivo il maltrattatore cerca di fare in modo che chi le circonda cominci a dubitare delle loro impressioni, dei loro ragionamenti e persino della realtà delle loro azioni.Convincere una persona che la sua percezione della realtà, dei fatti e dei rapporti personali è sbagliata e ingannevole, è assai facile. Bisogna negare che sia mai successo quello che invece è accaduto e a cui si è presenziato; basta convincerla che, invece, ha detto o fatto qualcosa che non ha né detto né fatto; accusarla di aver dimenticato quanto realmente è accaduto, di inventare problemi  per poi soccombere ai sospetti, di interpretare sempre in modo errato, di deformare le parole e le intenzioni, di non avere mai ragione, di immaginare nemici e fantasmi inesistenti. Per chi è nella posizione della vittima è difficile accorgersi della violenza subita, perché in certe situazioni si sviluppano meccanismi psicologici per non vedere la realtà, quando questa risulta troppo sgradevole. Il fatto di accettare di essere vittime di una situazione di maltrattamento psicologico, probabilmente da parte di una persona che si stima, comporta un enorme carico di ansia che non è facile metabolizzare. È difficile accettare che qualcuno che dovrebbe amarti ti usi violenza. E dal momento che la vittima non ne capisce i motivi, diventa insicura, irritabile, aggressiva e persino violenta. È come il gatto che si morde la coda, perché attribuisce la colpa dell’ansia che prova non al maltrattatore, ma alla propria sensibilità o eccessiva suscettibilità. E il maltrattatore in questione alimenta questo dubbio scrollandosi di dosso le proprie responsabilità e accusando la vittima di essere pazza, isterica, depressa o paranoica. Caratteristica della violenza perversa, infatti, è la capacità di gettare l’altro nella confusione, facendogli perdere i punti di riferimento, finché non sia più in grado di distinguere ciò che è normale da ciò che non lo è.

(….)

Questi maltrattatori negano l’aggressione, condiscono le loro frasi di humor, di ironia, di commenti apparentemente innocenti che vanno dritti ai punti deboli della donna e l’affossano lentamente. Se la vittima si lamenta, si sente dire una cosa che l’abbatte ancora di più: “Scherzavo tesoro, non devi prendertela tanto”, frasi che insinuano il sospetto che lei sia un’instabile pronta ad offendersi al minimo pretesto o una sciocca completamente priva di ironia. L’aggressore nega l’aggressione; il problema, dunque, viene scaricato tutto sulla vittima. La psichiatra definisce questa violenza come “perversa”, una vera e propria distruzione, molto insidiosa perché indiretta. La persona viene fatta a pezzi, in maniera costante e ripetuta, attraverso gesti e parole di disprezzo, umiliazione e discredito,.  L’aggressore scarica sugli altri le proprie frustrazioni, evitando così ogni responsabilità e conflitto interiore. E umilia chi ha vicino. L’obiettivo, dunque, è l’occultamento della propria incompetenza e debolezza. L’aggressore non perde mai e staffe e non alza mai la voce; parla sempre con lo stesso tono piatto, manifesta una fredda ostilità che è pronto a negare quando si allude ad essa. La causa del problema non è evidente, l’aggressore si rifiuta di parlare di ciò che non funziona; questo rifiuto paralizza la vittima e le impedisce di trovare una soluzione. Tutto quello che quest’ultima può dire viene sistematicamente deformato per poterla trovare sempre in fallo: viene disprezzata e umiliata. Lui la prende in giro, ma i modo sottile, così che i possibili testimoni avvertano solo un vago sentore d’ironia.

(…)

L’abuso psicologico si realizza attraverso affermazioni terse a svilire, minacce velate, critiche e derisioni indirizzate all’aspetto fisico della donna, alle sue iniziative e alla sua personalità, accuse e via dicendo, il tutto nascosto sotto atteggiamenti affettuosi volti a disorientare la partner perché, evidentemente, è difficile diffidare di qualcuno che ti da della grassona per tutto il tempo ma poi sostiene di non poter vivere senza di te e che quando ti prende di mira lo fa solo per scherzare e che sei tu che te la rendi sempre a male, accidenti piccola, quanto sei suscettibile, cavolo.

(…)

L’aggressore è solo un essere mediocre, consapevole del proprio grigiore, con un’assoluta mancanza di rigore morale e un disturbo serio dell’identità che si traduce nell’invidia verso il partner, che viene percepito, o ritenuto con certezza, superiore. E dunque per compensare il senso d’inferiorità, l’insoddisfazione occulta ma profonda, cerca di guadagnare potere sul partner per scavalcarlo.

venerdì 4 marzo 2011

Il coperchio del mare - Banana Yoshimoto

Dopo aver iniziato iniziato a leggere Il coperchio del mare, mi sono ripromessa che per me sarebbe stato l'ultimo libro di Banana Yoshimoto. 
Lo dico ogni santa volta, ma chissà perché puntualmente ci ricasco. Saranno le copertine ben fatte, l'aurea di essenzialità che emanano, oppure, più verosimilmente, la seduzione dei prezzi già bassi dell'Universale Economica Feltrinelli, che quando ci sono gli sconti ti permette con cinque/sette euro di portare a casa un libro ben fatto (più o meno, perché quest'ultima volta le pagine si sono scollate... e io non sono certo una che i libri li maltratta, anzi).
Tornando al libro, è stato una delusione. 
Di una banalità unica, al punto che viene da chiedersi se la Yoshimoto non abbia esaurito le idee. Ma se è così, perché per un po' non smette di scrivere e riprende solo quando avrà qualcosa da dire? 
Sembrerò acida, me ne rendo conto, ma davvero questo libro non trasmette nulla, soprattutto ai lettori più affezionati della Yoshimoto, che certi pensieri - o di simili - nei suoi libri li hanno già letti e riletti fino allo sfinimento. E pensare che avevo amato alla follia l'esordio letterario scrittrice, Kitchen, e avevo pianto come una fontana leggendo il racconto in appendice, che poi altro non è se non la sua tesi di laurea in letteratura. 
Da allora lo stile non è cambiato, è sempre lieve, amabile e delicato come una carezza, ma certo da solo non può bastare. La narrazione è inesistente, non succede praticamente nulla, luoghi comuni e ovvietà si sprecano; senza contare che lo stesso concetto - l'amore per il proprio paese, un tempo vivo e pieno di turisti, che va verso il declino - viene ripetuto con parole diverse fino allo sfinimento, finché quasi non viene da urlare: "Ho capito!". 
Ogni tanto, mentre scrivo, mi chiedo se sono troppo severa. Questo libro in fondo l'ho finito, anche se per puro spirito di dovere e completezza, mentre altri - pochi - non ce l'ho proprio fatta. E allora ammetto che sì, con un po' di buona volontà si può leggere, anche perché è breve, ma questo certo non corrisponde alla mia definizione di un buon libro. 
Un buon libro è quello che divori, che ti porti dietro e approfitti di ogni attimo libero per riaprirlo, che non vedi l'ora di tornare a casa per proseguire la lettura! Il coperchio del mare invece è piuttosto simile al tema in classe di uno studente svogliato: insipido e allungato fino all'inverosimile, giusto per riempire le pagine necessarie.

martedì 1 marzo 2011

Il Cigno Nero - Darren Aronofsky


Locandina Il Cigno Nero, 2010
L’Oscar alla bellissima attrice israeliana Natalie Portman, consegnato durante la tradizionale cerimonia che si è tenuta l’altra notte a Los Angeles, è senza dubbio uno dei più meritati.
Lo sa bene chi ha già visto Black Swan, quel Cigno Nero che da noi, come spesso accade, è arrivato con notevole ritardo rispetto al resto del mondo. 
Uscito nelle sale italiane il 18 febbraio, il film di Darren Aronofsky (già autore di Requiem for a dream e The Wrestler) era infatti già stato presentato a Venezia, dove a settembre aveva aperto al Mostra del Cinema. Thriller psicologico ambientato nel mondo del balletto newyorkese, il Cigno Nero è uno dei quei film in cui è l’attrice protagonista – in questo caso una sublime Natalie Portman – a fare la differenza. 
Perché il film, che gioca ripetutamente con gli elementi classici del cinema horror, è interamente incentrato sulla ballerina Nina, fragile e innocente al punto da suscitare emozioni contrastanti in chi la guarda; istinto di protezione da un lato, irritazione dall’altro.
Cupo, ipnotizzante, visionario e ambiguo, senza per questo risultare incomprensibile, il Cigno Nero trasfigura simbolicamente l’inarrestabile discesa negli inferi di un animo che ha rigettato il male nella stessa maniera in cui rigetta il piacere: inconsapevolmente, senza appello. 
Ma il male non è qualcosa che si può sotterrare senza conseguenze, negandolo come un misfatto senza testimoni.
Il lato oscuro, che nel film assume le sembianze dell’erotismo, rappresentato da una Mila Kunis perfetta nella sua scandalosa naturalezza, dell’invidia e dell’ambizione, esige di incarnarsi nella regina dei cigni per condividere la scena con il suo candido alter-ego.
Si tratta in fondo dell’eterno dilemma dell’essere umano, in bilico tra bene e male, alla perenne ricerca di un compromesso, consapevole che se convivere con entrambi vuol dire giocare col fuoco, rinunciare a uno di essi è peccato mortale. Non si può odiare il cigno nero senza rimpiangerlo, senza sentirne la mancanza con un dolore tale che può condurre fin sull’orlo della pazzia.
Il film insegna che quello che celiamo con più accortezza, quello che non riusciamo ad accettare, quando trova uno spiraglio per uscire allo scoperto non può che trionfare, forte degli anni passati a nascondersi, a covare, come un germe che infetta tutto ciò che incontra sul suo cammino.
E l’ambizione, l’ossessiva ricerca della perfezione, è essa stessa perversione e peccato, perché per essere perfetti occorre come prima cosa distruggere ogni traccia di umanità.
Nel Cigno Nero, Aronofsky si serve del classico Lago dei Cigni per mettere in scena un femminile arcaico e inaccessibile, incarnato da personaggi che sono vittime e carnefici al tempo stesso.
Non è certo un caso, infatti, se l’intera trama cementifichi la propria solidità su una galleria di figure femminili eccessive eppur credibili, pilastri di una narrazione che sa spaziare dall’horror al drammatico, dal thriller all’erotico. 
Sullo sfondo, poco più che una semplice comparsa, il maestro di danza interpretato da un pur bravo Vincent Cassel, unico personaggio maschile, che a mio parere manca della credibilità necessaria per affascinare fino in fondo.
Troppo piatto, troppo prevedibile nella sua scontata e perversa impotenza.
In complesso un film da guardare, bello come non se ne vedevano da un po’, che gli amanti del genere ameranno alla follia e che ricorda vagamente un certo Lynch, seppur annacquato e reso decisamente più accessibile. 
Ma soprattutto, un film dalla duplice lettura: intrigante se possedete un’accentuta vena psicologica, semplicemente godibile se siete amanti del thriller.