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sabato 30 novembre 2013

In una notte di mezza estate

Seppe di aver toccato il fondale ancor prima che la sabbia si insinuasse tra le lische della coda. Annaspò alla ricerca d’acqua, mentre l’aria limpida e fredda le graffiava la gola. Era solo questione di tempo prima che il suo corpo si abituasse all’aria e le branchie si schiudessero per permettere ai polmoni di funzionare correttamente. Un processo doloroso, ma inevitabile. Guardò dietro di sé sua sorella Ananke che volteggiava ignara del pericolo.
Avrebbe voluto urlarle di allontanarsi più in fretta che poteva, di tornare al largo, dove l’oceano scavava profondità inaccessibili alle creature della terra, ma non ne ebbe il tempo. Un laccio di ferro le si conficcò nel derma coperto di lische, intaccando la struttura interna della coda. Urlò di dolore, piegandosi in due nella trappola trasparente e letale. Qualche metro più in là, Ananke si dibatteva disperatamente in un’altra rete. Un’acuta stilettata di colpa le trafisse il cuore. Avevano sbagliato ad avvicinarsi alla costa… lei, che era la maggiore, avrebbe dovuto tenere a freno l’imprudenza di Ananke. All’improvviso sentì le loro grida. Uomini, tanti uomini. 
Come tutte le creature del mare, Surya conosceva la loro lingua, sapeva che quei versi disarticolati indicavano soddisfazione, vittoria.
Si guardò intorno, terrorizzata. Solo allora si accorse che quel tratto di mare era interamente ricoperto di reti invisibili, messe lì apposta per loro…

Amerigo era solo nel salone delle feste. Aveva mandato via i servitori e gli uomini incaricati di tinteggiare le pareti per la cerimonia d’investitura del nuovo sovrano, che si sarebbe tenuta di lì a qualche giorno, al ritorno di Rolando. Le labbra dell’uomo si incresparono in una smorfia. Rolando, l’erede al trono che suo padre aveva indicato come successore sul letto di morte. Scavalcando ogni buonsenso e ogni tradizione, il vecchio aveva scelto il figlio minore, che a sedici anni si era arruolato nell’esercito per tornare in patria solo una volta l’anno.
Un soldato su trono di Cornovia, il più esteso e prospero di Occidente!
La smorfia di Amerigo si appianò nella maschera di gelo che indossava quando era infuriato. Le spie che aveva messo sulle tracce di suo fratello gli avevano riferito che sarebbe sbarcato in patria il ventidue giugno. I suoi uomini migliori l’avrebbero atteso lì, schierati in forze e armati fino i denti. Rolando non avrebbe mai immaginato quale calorosa accoglienza lo aspettava nella sua terra natale, dove credeva di mettere piede come futuro sovrano. Le labbra sottili dell’uomo si arcuarono in un sorriso che ricordava quello di un pescecane.
In quel momento entrò un servitore, un ragazzino alto e magro, piuttosto scialbo.
«Sire» esclamò, inchinandosi con deferenza. «Sta arrivando!»



sabato 11 maggio 2013

Ricordi del tempo che non esiste più


Ci baciavamo teneramente, appassionatamente, come se il tempo e le cose del mondo non esistessero più, come se noi stessi non avessimo passato, né presente. Il futuro lo stavamo decidendo allora.
Poi ti sei fermato.
Mi hai preso le mani, mi hai guardato negli occhi, serio, e mi hai chiesto se ero davvero felice a Torino.
Ti ho risposto di sì, abbiamo sorriso, il tuo sorriso però era triste.
Solo molto dopo ho capito che era il tuo modo di chiedermi se ero felice senza di te.

mercoledì 8 maggio 2013

L'uomo di mia madre (inizio)

"Quando avevo vent'anni, mia madre si innamorò per la tredicesima volta. Lui si chiamava Salvatore, aveva trentanove anni, era avvocato e lavorava presso uno degli studi associati più rinomati della nostra città. Questo era quanto sapevo di quell'uomo prima che venisse a vivere da noi, e per quanto mi riguardava era anche troppo. 
Non ho mai apprezzato i gusti di mia madre, che in fatto di uomini risultavano quasi imbarazzanti per la loro ordinarietà. Scelte perfette di uomini perfetti: mascella squadrata, bicipite scolpito, bocca carnosa e portafoglio gonfio per completare la sua vita perfetta.
Dove li trovasse, non l'ho mai capito. 
Non che mia madre fosse da meno, comunque. 
Tutti i maschi della scuola, professori e bidelli inclusi – e, sospetto, anche il preside – le sbavavano dietro quando ancheggiava lungo i corridoi del liceo dove insegnava italiano, che per colmo di sfortuna era stato anche il mio liceo. Alta, bionda e formosissima, catturava tutti gli sguardi vogliosi maschili che io, adolescente acerba e piatta come poche, non riuscivo ad attirare per più di qualche secondo. 
E per riuscirci dovevo usare tonnellate di trucco e mini raso-passera, che, ora me ne rendo conto, dovevano ispirare più tenerezza che sesso. Il sesso. 
Anche in questo mia madre dimostrava di essere una donna spaventosamente banale. Cercava l'amore, lei, e per quanto ne sappia non si è ancora arresa nemmeno adesso che ha sessant'anni e tre divorzi alle spalle. La sua è sempre stata una ricerca ostinata e distruttiva, soprattutto per chi le stava accanto. 
Lo sapeva bene mio padre, liquidato senza troppe cerimonie il giorno in cui l'adorabile mogliettina aveva conosciuto più intimamente il suo istruttore di nuoto, e lo sapevo bene anch'io, che di tanto in tanto venivo svegliata in piena notte da mugolii simili ai versi di un animale selvatico. 
È questo che ricordo di lei, se ripenso alla mia adolescenza: sguardi distratti, aspre critiche e notti insonni passate a covare odio contro il cuscino salato, umido di lacrime. 
Ero tutto fuorché una ragazzina felice, ma mia madre non era da meno. Ogni volta qualcosa finiva per andarle storto, e l'unica imperfezione della sua vita di ex moglie di un facoltoso industriale restava l'incapacità di tenersi un uomo. Io ci godevo spudoratamente, soprattutto quando erano loro a mollare lei. 
Ricordo ancora come bruciavano le sue mani morbide e curate sulle mie guance, quando da piccola mi divertivo a rubarle i trucchi per impiastricciare poi con cura i cassetti della sua biancheria o i gioielli. 
Se era in un periodo di magra, di notti solitarie e silenziose, perdeva la pazienza per un nonnulla, ingurgitava sonniferi e spesso non riusciva a svegliarsi nemmeno per andare a scuola. 
Allora si accaniva contro mio padre perché non pagava puntualmente gli alimenti o perché, a suo dire, se n'era andato fregandosene di noi, che rimanevamo pur sempre la sua prima famiglia, eccetera eccetera. Mio padre si era fatto una nuova famiglia e si era trasferito in Germania. Quando mi arrivò per posta la foto di mio fratello – un angioletto biondo e paffuto stretto tra due amorevoli genitori – le diedi fuoco con l'accendino che mi aveva regalato Carlo, il mio primo amore, in ricordo della nostra prima canna insieme. 
Ne erano seguite molte altre, e altrettante volte ci eravamo incastrati selvaggiamente sui sedili posteriori della sua Ford Fiesta, ma lui continuava a stare con la mia migliore amica, e io iniziavo a stufarmi. Tornando a mia madre, nei periodi buoni, quando, a suo dire, “trovava finalmente l'amore vero”, era una mamma esemplare: niente ritirata (era più comodo che rimanessi fuori dalle scatole il più a lungo possibile), niente regole, schiaffi, rimproveri, e gli alimenti che versava mio padre erano tutti per me. 
A pagare i suoi conti ci pensava il manzo di turno. 
Quanto l'ho odiata! L'ho odiata con la specie d'odio peggiore che esista, quello che nasce dalle macerie dell'amore. Una mattina, io e Carlo avevamo deciso di incontrarci, saltando io le lezioni universitarie e lui il lavoro. La giornata era incantevole, e mia madre era in gita con la classe, lontana svariati chilometri dalla città e dalla sottoscritta. Finalmente riuscivo a respirare profondamente. 
Salimmo le scale del mio condominio come due ubriachi, urtando i muri e aggrappandoci selvaggiamente l'uno all'altra. Quella mattina avevo messo la gonna. Mi eccitava da morire camminare davanti a lui, piegarmi quando sapevo che il decoro avrebbe dovuto impedirmelo, sulle scale mobili del centro commerciale o sulla metro, tra la gente, consapevole che lui non avrebbe potuto toccarmi come si deve. 
A volte lo faceva, furtivamente, e quelle carezze appena accennate, quegli sfioramenti apparentemente casuali, avevano il potere di eccitarmi più di tutto quello che sapevo sarebbe successo dopo.
Mentre camminavamo abbracciati, faceva scendere discretamente la mano ad accarezzarmi il fondoschiena, con naturalezza; ciò mi provocava intensi brividi lungo la schiena, soprattutto se qualcuno, meglio se uomini di mezza età, si era accorto di noi e ci osservava interessato, cosa che tra l'altro accadeva spesso, visto quant'eravamo spudorati.
Impazzivo quando tra la folla che si accalcava sugli autobus negli orari di punta, Carlo faceva scivolare una mano calda tra le mie cosce, dischiudendole con la forza per potermi accarezzare in profondità. 
In quei momenti immaginavo che non fosse lui. 
Immaginavo uno sconosciuto qualsiasi, un irreprensibile padre di famiglia o un serio uomo d'affari, avvicinarsi di soppiatto e frugarmi ovunque, dentro e fuori, con violenta voracità, fino a sentirlo gemere di piacere. 
Impazzivo dalla voglia, sentivo inumidirsi il cotone delle mutandine, ma l'orgasmo, quello no, ero convinta di non averlo mai provato. Io e Carlo eravamo ancora avvinghiati quando giungemmo sul mio pianerottolo…" (continua)

domenica 5 maggio 2013

Quando l'amore finisce

E se esistesse una sorte divina legge che impone alle coppie, prima di dimenticarsi, di farsi tanto male quanto amore c’è stato? 
Allora forse si potrebbe forse giustificare l’odio profondo, le cattiverie e le bassezze che si riservano gli uomini e le donne che un tempo si amavano e che stanno per lasciarsi… eppure, resto convinta che la prova del nove dell’amore arrivi proprio quando finisce.
Non conta chi ha fatto cosa a chi, non conta il rancore accumulato, le notti bianche e le sere nere, non contano le lacrime, i tradimenti, né il modo in cui un uomo e una donna riescono a sporcarsi mentre l’amore si va lentamente esaurendo, quando il vuoto che lascia è così profondo che potresti annegarci.
Quando due persone smettono di amarsi, se era amore vero te ne accorgi perché il dolore copre ogni altra sensazione, gettando una spessa coperta di cenere sotto quello che un tempo era un gioioso falò.
Lì sotto, ancora viva, resta una scintilla.
Tempo e dolore avanzano tenendosi per mano, e quando gli anni passati scopriranno quello che è rimasto, ti accorgerai che la persona che hai tanto amato è ancora quella a cui auguri tutto il bene e l’amore del mondo.
Tu, che l’hai amata per davvero, sai che se lo merita. 

giovedì 2 maggio 2013

L'amore fatto di istanti

Anche il bene che ci vogliamo io e te è una forma di amore.
Non è quello dei film, quello che ti spacca il cuore, quello delle lacrime e dei “per sempre”, delle notti buie e degli attimi di esaltazione, quello che la mancanza ti blocca persino il respiro, ma è pur sempre un amore.
Pacato, rispettoso e incredibilmente appassionato, è un amore che sa mettersi da parte senza drammi quando si accorge che no, noi due non siamo fatti per stare insieme.
Non tutte le persone che si amano sono fatte per stare insieme.
Quasi nessuna, per la verità.
È la fine di un ciclo, la volontà di farsi del bene fino in fondo.
Chi l’ha detto che il vero amore è eterno?
Chi ha stabilito che il coronamento ideale è una vita insieme, magari un matrimonio, e poi finire a odiarci e a maledire i giorni in cui la magia è andata svanendo?
Magari l’amore è questione di attimi.
Ogni volta che sei stato dentro di me, io ti ho amato profondamente.
Solo tu nei miei pensieri, nei miei gesti, nel cuore che batteva contro il tuo… e se non era amore quello!
Ogni volta che ho pensato alla tua bocca sulla mia, ogni volta che ho sperato di rivederti presto, ogni volta che non stavo nella pelle al pensiero di noi due nuovamente insieme, seduti a un tavolino a parlare tenendoci la mano… ogni volta, io ti ho amato.
Ogni volta è durato pochi attimi, ma è stato amore.
È amore anche il fatto che stasera sono qui e penso a te e alla nostra ultima volta insieme, al tuo sguardo quando sono scesa dalla macchina, al sorriso triste mentre scivolavamo via, io dentro un portone, tu sulla strada che ti portava via, lontanissimo da me.
Sono qui ed è tardissimo, gli occhi si chiudono, ma ho bisogno di augurarti mentalmente ogni felicità, ho bisogno di scriverlo per non dimenticare che te l’ho detto e che tu hai capito. Noi ci siamo sempre capiti, perché non abbiamo mai creduto di doverci qualcosa.
Abbiamo vissuto di segreti per il mondo, ma non per noi.
Sono attimi che non passano, trattini incisi sulla pelle, tatuaggi della memoria che non andranno mai via, perché ogni corpo è segnato dai corpi che ha vissuto, toccato, amato.
Vivere vuol dire proprio questo.
Probabilmente il segreto dell’amore che dura è dilatare ogni attimo, moltiplicare gli istanti, espanderli fino a coprire la vita, e allora sì, allora sarà amore vero.
E forse sarà per sempre.
Ma a noi sono stati dati solo quegli attimi, che custodirò per sempre nel mio cuore…
Come se fosse amore, perché lo era.

domenica 28 aprile 2013

Silenziosa e buia come la neve

Da ore la spia della benzina gli indicava che era in riserva.
Non aveva previsto di fermarsi, ma ormai non gli restava altra scelta. Le catene si erano rivelate utili lungo le strade che si arrampicavano sulla montagna ammantata di neve fresca, friabile come polistirolo, ma ormai era notte, l’asfalto stava rapidamente ghiacciando e il rischio di rimanere in panne era più di quello che era disposto ad affrontare per raggiungere la baita. 
Sarebbe arrivato in ritardo al week-end organizzato dai suoi colleghi, ma non importava. Non se avesse trovato il modo di passare la notte al caldo, ripartendo al mattino, con la mente fresca e il volto sbarbato.
Da quelle parti un tempo c’era una pensione, qualcosa di vagamente simile a un motel per turisti demoralizzati e dispersi. 
Uno stabile alto e lungo arroccato sul ciglio della strada, le camere sul retro affacciate sul burrone. Piuttosto lugubre e caratteristico.
Vi aveva soggiornato con Lisa, ai tempi in cui la loro storia aveva ancora qualche speranza di funzionare. 
Come richiamato dal suo pensiero, superata l’ennesima curva l’edificio gli si parò davanti all’improvviso, senza dargli il tempo di accostare. Fece retromarcia e sistemò l’auto in una minuscola radura a bordo strada. Sbuffò diverse volte, esalando nuvolette di vapore caldo, mentre prelevava il borsone di viaggio e raggiungeva a lunghe falcate il portone d’ingresso. Accolto da un silenzio greve e pesante come ghiaccio, il rumore del cofano che sbatteva era risuonato come una detonazione, facendolo sobbalzare.
Da una decina di minuti aveva ripreso a nevicare.
Quando suonò la campanella della reception, il suo giaccone era coperto da fiocchi bianchi tutt’altro che intenzionati a sciogliersi. Si chiese con una certa inquietudine se lì avessero il riscaldamento funzionante. Entrando non aveva avvertito alcuno sbalzo termico, nemmeno un flebile tepore; nella hall si gelava esattamente come fuori. Si guardò intorno, a disagio.
Aveva ricordi molto vaghi di quel luogo – quei pochi si confondevano con le immagini di lui e Lisa che si rotolavano sul materasso cigolante –, ma certo la volta precedente non gli era sembrato così spoglio e desolato. La luce smorta dei neon illuminava mobili vecchi e spartani, coperti da strati di polvere spessi come tappeti. 
L’aria era consumata, come se nessuno aprisse le finestre da giorni, forse mesi. Uno sgradevole odore di muffa, come se qualcosa marcisse in antri invisibili, lo costringeva a trattenere il respiro.
Alla reception non si vedeva nessuno, e iniziava a sentirsi a disagio.
Suonò di nuovo, premendo il dito qualche secondo in più del necessario.
– Desidera? – bisbigliò una voce alle sue spalle.
Sobbalzò dallo spavento. 
Si girò lentamente, sforzandosi di nascondere il disappunto, per vedere a chi apparteneva quella voce femminile che infrangeva il silenzio come una lama graffierebbe il vetro. 
Il secondo sobbalzo lo ebbe quando i suoi occhi si posarono su di lei.
Era la donna più bella che avesse mai visto. 
Non tanto per il corpo snello, i capelli lunghissimi o la scollatura profonda che esibiva. Era il volto a catturare la sua attenzione. Occhi magnetici, profondi come pozzi, regalavano all’ovale un’arroganza pienamente giustificata. Le bastò fissarla qualche secondo per avere l’assurda sensazione che quel volto fosse l’unica, magnifica pennellata di colore in un mondo che all’improvviso si era fatto nero, come se tutto il resto avesse smesso di esistere.
– Allora? –
Sbatté le palpebre e fu colto da una lieve vertigine. 
Il mondo riacquistò i suoi colori e la hall la sua polvere, il sentore rancido era più forte che mai.
– Una stanza… Cerco una stanza per la notte. –
Si trovò a seguire la sconosciuta su per scale ripide, respirando quell’insopportabile odore di stantio. 
Anche le scale sembravano impolverate. 
Nel porgergli le chiavi, le labbra della donna si arcuarono in un sorriso terribilmente sensuale. Suo malgrado, sentì il bisogno di cercare i suoi occhi e indugiare più a lungo di quanto avrebbe voluto nelle due pozze color fango, che sembravano allargarsi ogni secondo che passava, risucchiando ogni cosa.
Pur nella sua abbagliante simmetria, il volto di quella donna senza età – poteva avere vent’anni o quaranta, non era in grado di stabilirlo – presentava qualcosa di stonato.
Colpa forse degli occhi troppo grandi, simili a quelli delle donne degli hentai che amava tanto, o delle labbra sproporzionatamente carnose rispetto al nasino francese all’insù, un puntino nel mare lattiginoso della sua pelle. Quella strana donna corrispondeva perfettamente ai suoi canoni, del tutto irrealistici, di bellezza femminile.
Quella notte si rigirò a lungo tra le coperte, inquieto e ansioso.
Eppure non aveva alcun motivo per sentirsi così. 
Gli venne da pensare che se un rumore insistente, in determinate condizioni d’animo, poteva far impazzire un uomo, altrettanto poteva fare il silenzio più assoluto. Quando sentì stridere i vetri della finestra, perciò, per prima cosa si sentì sollevato. 
Un rumore sordo e metallico che aumentava d’intensità, provocandogli una curiosa sensazione di pelle d’oca. Gli ricordava quello delle foglie mosse dal vento che graffiano i vetri… No, piuttosto un ramo, spezzato dal carico di neve.
O forse semplicemente un sogno. Non aveva ordinato alle sue gambe di muoversi, ma queste avevano già scostato il piumone e di lì a poco aveva sentito il pavimento gelido sotto i piedi.
Uno, due, tre passi in direzione della finestra.
Le spesse tende lasciavano trasparire il bagliore accecante della neve, appena offuscato da una sagoma oscura. 
Le aprì e se la trovò davanti. Le labbra sorridevano, negli occhi si agitavano piccoli vortici che gli davano le vertigini. 
Volteggiava nell’aria immobile, e il tanfo rancido emanato dalle vesti presto divenne un profumo seducente.
– Posso entrare? – chiese con voce melodiosa, come se stesse cantando.






giovedì 25 aprile 2013

Ricordati di me

Pensa a quanto mi ami in questo momento. Non posso chiederti di amarmi sempre così, ma di ricordarlo sì. 
Da qualche parte, dentro di me, ci sarà sempre la persona che sono stasera. 
(F. S. Fitzgerald)


domenica 21 aprile 2013

Il senso del pudore di una spudorata per natura

Quanto mi dà fastidio vedere ragazze belle, intelligenti e simpatiche perdersi dietro un uomo che non le merita.
È proprio un fastidio fisico, ecco. 
Un tempo queste ragazze stavano a casa, attaccate al filo di un telefono che non squillava mai; interi week-end passati tra le quattro mura della propria stanza, tra lacrime e speranza, sempre più convinte di non valere nulla solo perché lui non le richiamava.
Poi c’è stato l’avvento dei telefonini, seguiti a ruota da smartphone e social network, e lì è stato anche peggio.
Perché oggi queste ragazze escono, ma le vedi lì, sedute al tavolino di un bar o di un pub, circondate da amici che letteralmente ignorano, perse come sono ad armeggiare con quei maledetti aggeggi, appese alla speranza di un suo messaggio privato su FB, di un cenno su Wazzup (si scrive così?), o almeno di un aggiornamento di status, tanto per accertarsi che il lui in questione sia vivo e non perso nei labirinti orgiastici con qualche troione biondo e rifatto (sto interpretando il pensiero di codeste ragazze eh, non fraintendetemi!).
E qui veniamo a uno dei motivi per cui io non ho né i-phone, né uno straccio di smartphone (anche se aimé presto, causa lavoro e necessità di controllare spesso la mail, potrei trovarmi a doverlo comprare… ma sto cercando di rimandare quel momento con tutte le mie forze).
Non ne sento il bisogno. 
Se sono fuori, con i miei amici, è con loro che voglio stare… sennò restavo a casa, no? Voglio essere presente in ogni luogo in cui vado, voglio godermi appieno la natura, la mia Capiroska, i miei amici, il buon sesso, gli incontri, l’aroma del caffè e l’ultima crostata che ho sfornato senza vivere nell’impellenza di pubblicare tutte le foto su FB.
Quello al massimo lo farò dopo, comodamente, da casa.
Sto parecchio su FB, perché è un modo per illudermi di non stare lavorando quando invece, mio malgrado, passo ore al computer per scrivere, editare, correggere e tutto ciò che il lavoro mi impone; scrivo anche parecchi status e parecchie cazzate che mi passano per la mente, e rido quando vedo come la gente le prende sul serio e pretenda di conoscermi attraverso quello che scrivo.
No, le cose davvero importanti non si scrivono su FB. 
Almeno io non le ho mai scritte.
È il pudore di una spudorata per natura: nei miei pensieri più segreti, inconfessabili, a volte persino perversi, ci entrano solo in pochi. Forse in tutta la vita non si contano sulle dita di una mano.
FB è uno scherzo sociologico, è un esperimento che divertente, che dà molto materiale su cui riflettere e su cui scrivere.
Non ho la pretesa di giudicare, perché il giudizio è la peggior forma possibile di approccio per chi vuol comprendere la natura umana; o, quanto meno, quel poco di comprensibile che vi è in essa.
Il resto è pura irrazionalità, e davvero è decisamente meglio così.
Ciò che si afferra con la razionalità, raramente ha fascino; ciò che posso ottenere come e quando voglio, raramente stuzzica il mio interesse, o anche solo un barlume di curiosità.
Forse è che voglio vivere nel costante tentativo di afferrare l’inafferrabile, di catturare quell’attimo che mi faccia sentire viva per davvero, nella vita reale dico, sensazioni che solo dopo potrò riportare sul virtuale, preferibilmente tra le pagine di un mio libro o racconto.
Non voglio vivere appesa a un filo-nonfilo, a uno status, a un messaggio, a un uomo o a un desiderio irrealizzabile.
Non ho la pretesa di sapere come sia meglio vivere, o quale sia il senso del vivere, ma quel poco che so in merito è che la dipendenza – da qualsiasi cosa – è la maniera più insana e infelice di stare al mondo.
E la libertà non è solo fare cose/vedere gente… la libertà è essere presenti al 100% in ogni attimo, in ogni sospiro ed emozione che fa battere il cuore… viversela senza proiettarla nel futuro, senza il limite dei doveri che ci aspettano, senza voltarsi costantemente verso un passato che - per quanto bello diventi attraverso la trasfigurazione di una memoria che raramente ricorda la verità - in definitiva è morto.
Non morite assieme a lui.

venerdì 19 aprile 2013

La Teoria dell'eterno Ritorno degli ex

"Le ultime due settimane mi hanno insegnato che la teoria dell'eterno ritorno di Nietzsche può essere applicata anche agli ex. Suona più o meno così:
Qualsiasi ex, persino quello a cui avete messo le mani addosso dopo aver scoperto che spargeva il suo seme in giro come fosse concime, o quello che ha scritto il vostro numero nei bagni pubblici sotto la scritta "pompini gratis" (cose REALMENTE accadute alla sottoscritta), TUTTI gli ex prima o poi ritornano.
E non importa se nel frattempo si sono sposati, hanno fatto figli o si sono trasferiti dall'altra parte del mondo pur di non incontrarvi.
La fase clou, quella con cui pensano di spiazzarvi, sarà sempre la stessa: "Perché sai... io in realtà non ho MAI smesso di amarti!".
Una folgorazione, proprio.
Che fare? 
Fate come me, prendetela a ridere e pensate a quant'è grande Dio che ha separato le vostra strade prima che vi legaste per sempre a un pirla del genere."

mercoledì 17 aprile 2013

Altrove...

"Stasera, mentre mi facevo la doccia con la finestra aperta e l'aria della primavera sulla pelle, all'improvviso ho avuto come un deja-vù. Per una frazione di secondo, una parte di me è tornata a Perugia, a quella sera di fine aprile quando sono venuta a prenderti alla stazione dei pullman e ti ho gettato le braccia al collo stringendo così forte che tu mi hai detto, ridendo: “Così mi soffochi!”.
Poi però quando ti ho lasciato andare mi hai stretta ancora più forte, così forte fortissimo che pure il cuore mi scricchiolava ed era ancora più grande il terrore che si rompesse, l’unica paura non mi abbandonava mai, nemmeno quando ero insieme a te.
E una volta a casa le finestre aperte sui boschi e le cicale che già cantavano, e noi due a letto tra le lenzuola freschissime, il profumo di pulito della pelle e del cotone, un sacco di amore che nemmeno riuscivamo a dirlo, ma farlo sì. Tanto, sempre, ovunque.
Ma quella primavera di più di sempre.
E poi sono tornata al presente, a una primavera che ha un sapore strano e a uomini che mi passano accanto senza riuscire nemmeno a sfiorarmi, perché io, ormai, sono sempre altrove."

lunedì 15 aprile 2013

Irène Némirovsky, la riscoperta della scrittrice che fa rivivere un’epoca

Famosissima nei primi decenni del Novecento, dopo il secondo conflitto mondiale Irène Némirovsky fu completamente dimenticata sia dalla Francia – nazione in un cui trascorse gran parte della sua esistenza, che l’aveva celebrata come la sua più grande scrittrice – che dal resto del mondo. Una Francia crudele, che non mostrò alcuna solidarietà per il suo destino di deportata (la Némirovsky, infatti, morì di tifo ad Auschwitz) né per quello di tanti altri ebrei francesi, e che dopo la guerra rimosse ogni ricordo assieme all’insostenibile orrore della guerra.

Nata a Kiev nel 1903 in una famiglia appartenente all’alta borghesia finanziaria (suo padre era un banchiere ebreo), durante l’infanzia Irène riceve un’educazione classica e pochissimo affetto sia da parte della madre – quella Fanny Némirovsky bella e egocentrica, dedita esclusivamente ai divertimenti mondani e agli amanti, che tornerà spessissimo nella produzione letteraria della scrittrice – che da parte del padre, completamente preso dai suoi affari e succube del gioco d’azzardo. Dopo la rivoluzione bolscevica, la famiglia Nemirovsky, appartenente alla classe agiata dei “russi bianchi”, affaristi e anticomunisti, per sfuggire alle persecuzioni è costretta a lasciare la Russia, rifugiandosi prima in Finlandia poi in Svezia.

La piccola Irène cresce quindi in esilio, approdando definitivamente in Francia, a Parigi, ormai adolescente. Si laurea con lode alla Sorbona e frequenta assiduamente la classe intellettuale del suo tempo, partecipando a convegni culturali, feste e balli eleganti.

Il suo talento letterario viene presto notato: nel 1929, infatti, viene pubblicato il suo primo romanzo, Daniel Golder, la storia dell’ascesa e caduta del finanziere ebreo Golder, che la Némirovsky inviò all’editore firmandosi con uno pseudonimo maschile, e che vendette ben sessantamila copie.

Nel 1933 pubblica Les mouches d’automn, nel 1935 Le vin de solitude, nel 1936 Jézabel, nel 1938 La proie, nel 1939 Deux e nel 1940 – appena due anni prima del suo arresto e della deportazione – Les chiens et le loups. Scrittrice particolarmente feconda, apprezzata sia dal grande pubblico che dalla critica, vide la sua carriera subire una brusca decelerata a causa della guerra e della promulgazione delle leggi antisemite.

Non potendo più pubblicare con la sua firma né collaborare con giornali e periodici, per un certo periodo Irène scrisse sotto pseudonimo, pubblicando i suoi racconti anche per il giornale antisemita Gringoire. È questo uno dei motivi per cui, nonostante le sue origini, in seguito sarà accusata di antisemitismo: “l’ebrea antisemita”, verrà infatti soprannominata nel 2008 da alcuni critici americani. L’accusa si fonda prevalentemente sulla sua produzione letteraria, su quei romanzi costellati da figure di ebrei al limite della caricatura, quasi delle macchiette, ricettacolo di tutti i luoghi comuni usati dalla propaganda antisemita. Tuttavia, leggendo tra le righe, appare evidente che Irène Némirovsky non odia affatto il suo popolo: è una scrittrice, e come tale considera criticamente la realtà che la circonda; ama la sua gente, ma non può fare a meno di sottolinearne con ironia le contraddizioni, le meschinità più o meno giustificabili e il carico di orrore che la guerra riversa sugli uomini, mettendo il luce i loro lati più meschini.

Tra il 1941 e il 1942, reclusa col marito nella loro casa di campagna, Irène scrive Tempête en Juine Dolce, rispettivamente la prima e la seconda parte del progetto Suite française, che vorrebbe pubblicare al termine della guerra, pur rendendosi presto conto che la sua resterà solo una speranza: verrà infatti arrestata dalla gendarmeria francese e deportata in Germania.

Il suo oblio è durato quasi sessant’anni, in cui la Nemirovsky scomparve dal panorama editoriale e letterario; fino a quando, nei primi anni Novanta del secolo scorso, l’editore Grasset ristampò le sue opere. Contemporaneamente, anche in Italia accadeva la stessa cosa: in un primo tempo con Feltrinelli, che nel 1989 pubblicò “Il ballo” e nel 1992 “David Golder”.

Ma sarà Adelphi, l’editore italiano di Iréne Némirovsky, a pubblicare l’intera produzione di una scrittrice unica nel suo genere, che seppe parlare della vita e della guerra con straordinario acume e ironia, che seppe indagare le infinite passioni dell’animo umano e trasmetterle al lettore senza filtri né ipocrisie, con la leggerezza propria di chi guarda oltre l’apparenza, accettando l’essere umano per quello che è: né buono né cattivo, semplicemente “umano”, mutevole e complesso.

Oggi Suite francese è probabilmente il romanzo più famoso della Némirovsky, vincitrice del prestigioso “Prix Renaudot”, esploso ovunque come un caso letterario e tradotto in oltre trenta paesi. Romanzo corale e realistico, che si ispira apertamente ai grandi romanzieri della letteratura ottocentesca (Balzac, Dickens e sopratutto Tolstoj, il vero modello), Suite francese fu scritto quasi contemporaneamente agli avvenimenti che narra, i primi bombardamenti su Parigi e l’arrivo dei tedeschi nel giugno del 1940.

Si tratta di un’opera incompleta, poiché la struttura originaria prevedeva cinque parti di uguale tonalità – da qui il titolo di “suite” – ma la scrittrice riuscirà a terminare soltanto le prime due parti, Tempesta di giugno e Dolce.

Tempesta di giugno narra con ironia e ricchezza di particolari l’esodo dei parigini, spaventati della veloce avanzata tedesca, verso la campagna e la provincia. Parigi ci appare come una città post-apocalittica, quasi asettica per via dell’ordine che regna nelle case abbandonate, dove ogni cosa è impacchettata e ricoperta da teli che sembrano voler congelare simbolicamente un presente destinato a non tornare così presto. La gente scappa dalla guerra, ma ancora non capisce bene cosa sia, questa guerra: ognuno conserva le proprie abitudini, i vizi e perfino i vezzi di classe, fino al tragico momento in cui si renderà conto che di fronte all’orrore della guerra, gli uomini sono tutti uguali.

Dolce, ambientato a Bussy, piccolo villaggio rurale occupato dai nazisti, narra con straordinaria autenticità la convivenza forzata tra vincitori e vinti e il tenero sentimento nato tra una giovane infelice, moglie di un prigioniero al fronte, e l’ufficiale tedesco che alloggia in casa sua.

A tenere insieme questa galleria di personaggi strambi è la Storia, rappresentata come una sorta di potenza unificatrice, livellatrice di un’umanità varia e sfaccettata.

Leggendo le opere di Irène Némirovsky quello che colpisce è l’approfondimento emotivo e psicologico, mai banale, di quell’umanità che la scrittrice sembra conoscere così bene, e di quei meccanismi – familiari, sociali, affettivi – di cui la sua scrittura acuta e ironica sembra svelare trame e segreti. È questa la magia anche dell’ultimo edito in casa Adelphi, Il vino della solitudine, opera profondamente autobiografica.

Questa volta al centro dell’attenzione della scrittrice c’è il rapporto che lega ogni donna-bambina a sua madre, rapporto complesso e pieno di contraddizioni specie per chi – come Irène e come la piccola Hélène, protagonista del libro – è stato poco amato.

“Da un’infanzia infelice non si guarisce mai”, era solita dire la scrittrice, e questo romanzo spiega bene il perché. È difficilissimo non immedesimarsi nelle vicende dei protagonisti, quasi impossibile restare lettori indifferenti dinanzi alle vicende narrate da una scrittrice che, dopo un lunghissimo oblio, è tornata famosa quasi per uno scherzo del destino.

Una scrittrice che oltre a scrivere divinamente è in grado di far vivere i suoi personaggi e rivivere un’epoca, gli anni Trenta del secolo scorso, indimenticabile e terribile.


giovedì 11 aprile 2013

Porno femminista, amplessi e cinema hard visti da una donna

Secondo le statistiche, un visitatore su tre di siti come “YouPorn” è donna.
Ebbene sì, le donne non lo ammetterebbero mai, ma guardano il porno esattamente come gli uomini, e se ci fossero meno pregiudizi magari lo guarderebbero di più,  più spesso.
Peccato che il porno – quello che conosciamo, quello che si trova sui suddetti siti e che ormai invade la rete, al punto che persino i ragazzini possono accedervi come e quando vogliono – beh, questo porno è orribilmente diseducativo. E no, non perché si parla di sesso, e il sesso è peccato e non si fa e comunque se si fa non se ne parla e blablabla. No, dovremmo ficcarci in testa che il sesso è bello, che più se ne fa e meglio è, che è bello giocare, sperimentare, scambiarsi ruoli, provare esperienze e posizioni diverse, amare con tutto – corpo-cuore-anima-cervello – a 360 gradi, che siamo esseri umani anche per questo e davvero non c’è niente, niente che rappresenti la vita meglio del sesso.
Dovremmo ficcarcelo in testa (no, la scelta del verbo non è casuale, oltre a Freud lo dico anch’io!) e ancor di più dovremmo ficcarlo in testa ai nostri ragazzi.
Dovremmo dirgli che uno può credere in Dio e farsi delle sacrosante scopate, che proteggersi dalle malattie non è tentato omicidio di ipotetico futuro minore e che se Dio ci ha donati di un corpo così sensibile, così vibrante, così pronto a darsi e a ricevere, beh, un motivo ci sarà!
E chissenefrega di chi dice il contrario. 
Abbiamo un cervello, ci serve per pensare autonomamente, non certo per aderire pedissequamente a dogmi dettati da qualcun altro. Questo solo per chiarire cosa penso io del sesso, perché già prevedo le accuse di moralismo di chi non capisce una mazza di ciò che legge.

Il problema è che il porno – tutta la pornografia com’è concepita fin dalla sua nascita – è profondamente misogino. Non maschilista, attenzione, ma proprio misogino.
Il perché lo spiega ampiamente un bellissimo libro di qualche tempo fa, Pornopotere di Pamela Paul.
I film porno replicano stereotipi che vedono le donne oggetto dei desideri e delle voglie maschili, e la situazione è ancora peggiore se si considera il porno italiano, che letteralmente pullula di INCESTI e STUPRI…. Ci rendiamo conto? Davvero è questa l’idea di sessualità che vogliamo trasmettere ai nostri figli o comunque alle generazioni che disgraziatamente imparano a fare sesso proprio guardando questo genere di pornografia?

Del resto, anche se è impossibile fare delle stime precise, visto la difficoltà di reperire statistiche oggettive, è un dato di fatto che moltissime pornostar e attrici hard hanno alle spalle un passato di violenza, e che le testimonianze di alcune di loro relative alla situazione sui set a luci rosse è agghiacciante. Non è un caso se moltissime pornostar – Jenna Jameson su tutte, come rivelato da lei stessa nella sua biografia – nell’infanzia hanno subito abusi sessuali orribili, dalle violenze da parte degli uomini di famiglia agli stupri di gruppo. E non è nemmeno un caso se moltissime di loro fanno una brutta fine, morte suicide oppure di overdose. Un giorno, in un articolo a parte, vi parlerò di Sandy Balestra, pornostar molto conosciuta negli anni Novanta, la ragazza cui Rocco Siffredi in un film mise la testa nel cesso per poi tirare lo scarico.
In un altro articolo, che sennò rischio di perdere il filo.

E per chi si stesse chiedendo come faccio a sapere tante cose sul mondo della pornografia, la risposta è semplice: le ho studiate. Perché la mia tesi in sociologia aveva molto a che fare con questo mondo, ma anche questo è un altro discorso.
Il problema non è il porno, ma il sessismo becero che lo pervade, e soprattutto il fatto che il porno è pensato e realizzato da uomini, soprattutto è realizzato in modo da mettere in scena desideri, perversioni e fantasie esclusivamente maschili; per rappresentarle ovviamente sono necessarie anche attrici donne, che recitano però una parte assegnatagli dagli uomini.
Accade così, del tutto coerentemente, come fa notare Pamela Paul, che le attrici siano il più delle volte molto più belle dei loro colleghi maschi, che non di rado sono vecchi, brutti e panzuti.
Quale ragazza reale avrebbe come fantasia sessuale quella di praticare una fellatio a un vecchio disgustoso? Ci vorrebbe un porno più rispettoso della dignità dei due sessi e dei loro legittimi desideri.

Prestazioni lunghissime e degne di un allenamento in palestra, posizioni acrobatiche e pratiche svilenti per la donna, dove le attrici simulano il piacere a esclusivo beneficio maschile: si tratta di un piacere che non provano, anche perché se gli attori maschi hanno sempre un orgasmo a fine scena, le dirette interessate ammettono candidamente che un’attrice hard quasi mai ha un orgasmo sul set di un film porno, né prova piacere; se è fortunata, non prova nulla. È un lavoro come un altro, dicono.

Nei film porno il piacere femminile non viene tenuto in nessuna considerazione, perché il film porno è la rappresentazione del desiderio maschile nella sua espressione peggiore.
E il vero problema è che sempre più persone, uomini e donne, vivono una sessualità improntata sugli stereotipi veicolati dai film porno.
Sempre più uomini credo che è imitando i pornoattori che faranno felice una donna.
C’è bisogno di dire che non v’è convinzione più errata?
Proprio per questo motivo mi ha molto incuriosita la notizia che a Toronto si sono appena tenuti i “Feminist Porn Awards”, gli Oscar del porno… femminista!

Quelli che finora erano due termini antitetici, improponibili nella stessa frase, oggi potrebbero convivere alla perfezione, o perlomeno così pensa la “guru” di questo movimento, Carlyle Jansen, che proprio a Toronto gestisce un negozio di giochi sessuali per sole donne.

Che il nuovo femminismo passi proprio per il porno? Non male, come idea.

Se pensiamo che tutto cominciò con la celebre frase “l’utero è mio e me lo gestisco io”, sembrerebbe quasi un ritorno alle origini.
Ancor di più considerando che il messaggio originario della rivoluzione sessuale anni Settanta è stato completamente stravolto, rivoltandosi contro le stesse donne, che da essere private di una sessualità libera, sono state praticamente ridotte alla propria sessualità.
Lo vediamo giornalmente sui giornali, sul web, per strada ma ancor di più in televisione.
Il porno femminista dice addio alle bambolone siliconate tutte tette e labbra in favore di un’immagine femminile più spontanea, realistica e appassionata: sul set dei film prescelti, infatti, solo orgasmi reali, piacere vero e intrecci un pelo (nemmeno questo termine è a caso!) più approfonditi rispetto al porno tradizionale, dove ogni cosa si riduce all’amplesso.
Non solo film lesbo, ma anche etero, che non risparmiano scene forti.
Non certo un porno soft, dunque, semplicemente una messa in scena dei desideri delle donne, sottomissione e voyerismo compreso, perché non si censura nulla, ma ogni scena viene registrata nel pieno rispetto delle attrici, cosa che nella pornografia non accade quasi mai.
Anche se molte femministe ritengono il porno inconciliabile con la dignità delle donne, io in questo caso non sono d’accordo… voi che ne pensate?

mercoledì 3 aprile 2013

La filastrocca dei perduti amanti - Racconto

Spiaccicai il naso contro il finestrino cercando di capire dove ci trovassimo.
Il treno, semideserto in quel martedì d’inizio dicembre, era diretto con oltre due ore di ritardo verso Milano. 
I pochi, insonnoliti passeggeri erano perlopiù gente d’affari che aveva sonnecchiato per tutta la durata del viaggio, cullata dal costante ronzio del treno e dall’aria calda che investiva lo scompartimento a ondate regolari. Un’inconsistente patina di brina e nevischio era scesa a sbiancare le dolci curve degli Appennini, rallentando ulteriormente il già disastrato traffico ferroviario.
Sospirai piano e mi morsi forte il labbro, cercando di non farmi prendere dall’ansia.
Era tardi, non sarei mai riuscita a prendere una coincidenza che mi consentisse di arrivare a destinazione prima di mezzanotte, tanto valeva scendere alla prossima fermata, cercarmi un albergo dove passare la notte e riprendere il viaggio il mattino dopo, tranquilla e riposata.
C’è un’inspiegabile magia nei viaggi fatti in treno al calar della sera, nel modo in cui l’oscurità sfreccia fuori i finestrini intervallata da lampi di luce che lasciano dietro di sé minuscole scie, simili a stelle cadenti poste a indicarci attimi e luoghi che non conosceremo mai.
Scesi in una stazione deserta, spazzata da un vento freddo e infuriato che sollevava polvere e carte, facendole volteggiare come coriandoli in minuscoli tornado. La sala d’aspetto era sporca e desolata sotto il fascio di un neon che andava a intermittenza e le pensiline oscillavano pericolosamente, creando strani giochi di ombre sui muri sporchi e scrostati.
Si trattava di una piccola città di mare, di quelle che d’estate venivano letteralmente prese d’assalto da turisti inferociti, ma che d’inverno recuperavano tutta la loro placida e desolata solitudine.
Nel piazzale antistante, i posteggi per pullman si susseguivano vuoti fino a un edificio malandato che sembrava un misto tra un’edicola, un bar e una sorta di biglietteria. Mi avvicinai con tutta la velocità consentita dal valigione che mi trascinavo dietro. Un omone grande e grosso, che da solo occupava quasi l’intero gabbiotto, facendolo sembrare minuscolo, m’informò con un grugnito che l’Hotel più vicino era il San Cristoforo, a duecento metri sempre dritto. Preferii non disturbarlo ulteriormente mentre infilava un enorme dito nel naso e riprendeva in mano la rivista che stava sfogliando al mio arrivo.
Mentre camminavo mi accorgevo di come la città attorno a me cambiasse impercettibilmente.
Dopo svariati metri di negozi chiusi e saracinesche abbassate, anonimi portoni di condomini di periferia e bidoni della spazzatura ricolmi, incontrai finalmente il primo ristorante aperto, un take-away cinese, e le luci brillanti e colorate di insegne e vetrine si sommarono alla luce fredda dei lampioni, facendomi intendere con sollievo che se non altro mi stavo dirigendo verso il centro città.
L’albergo era un severo edificio a cinque piani, simile in tutto e per tutto a un palazzo di uffici a eccezione dell’entrata, una porta a vetri con sopra un elaborato stemma che introduceva in un atrio flebilmente illuminato, adornato da un enorme, logoro tappeto e gruppetti di malconce poltrone di pelle. 
Mi guardai intorno, intimorita. Il vecchio televisore all’angolo era spento, e dietro il bancone non si vedeva nessuno. “Se non altro di sicuro c’è posto”, constai con sollievo, rendendomi conto che delle cento chiavi ospitate in altrettante minuscole celle la maggior parte erano al loro posto.
Se non si fosse presentato nessuno, avrei dovuto decidermi quantomeno a chiamare.
«Buonasera» dissi quindi, poco convinta.
La mia voce si perse nell’immenso locale. 
Mi schiarii la gola, avrei dovuto fare di meglio.
«Buonasera!» tuonò una voce appena dietro di me. 
Sobbalzai spaventata.
Prima che facessi in tempo a voltarmi, un uomo bel oltre la mezza età mi fu davanti. Era alto e smilzo, con la testa pelata e un paio di sopracciglia bianchissime aggrottate fin quasi a formare un unico cespuglio indistinto, e mi fissava con occhi severi sul volto rugoso. Sembrava in attesa di una mia richiesta, così mi riscossi e parlai con quella vocetta bassa e tremante che mi viene quando ho a che fare con degli sconosciuti.
«Volevo sapere se era possibile pernottare qui stanotte…voglio dire, se c’è una camera disponibile.»
La risposta mi colse di sorpresa.
«Sei fortunata, mia cara» disse il vecchio, zoppicando verso il bancone. «Ho l’ultima camera libera. 87, quinto piano. Colazione domattina alle sette, primo piano.»
Lo guardai costernata. Quinto piano? Con tutte quelle stanze libere?
Mi tendeva una chiave dorata che dondolava lentamente attaccata a un grosso porta-chiave a forma di mappamondo. 
Siccome non mi decidevo a prenderla né a parlare, alla fine il suo sorriso si tramutò in cipiglio.
«Be’ è vero, non abbiamo l’ascensore, ma purtroppo è l’ultima disponibile, prendere o lasciare!»
L’idea di lasciare mi spaventava troppo, così presi la chiave e mi feci difilato almeno cento gradini. Quando finalmente strattonai la valigia sul pianerottolo del quinto piano mi sentivo prossima all’infarto. La lampadina di fronte alle scale doveva essersi fulminata, e il corridoio era immerso in una semioscurità intervallata solo da un paio di neon sul soffitto. Tutto l’insieme aveva un aspetto irreale e desolato, col suo silenzio immobile e la moquette scura, ispida e consumata in più punti. Una freccetta indicava che la mia camera era sulla destra, era la penultima e sicuramente l’unica occupata dell’intero piano. 
Maledissi tra me l’avarizia e l’ostinatezza di quello che mi era sembrato il portiere: probabilmente quella era l’unica camera che si degnavano di pulire, assegnandola di tanto in tanto a ignari viaggiatori di passaggio. 
Dopo aver sistemato il mio beauty-case sulla mensola del bagno e riposto un cambio d’abiti nell’armadio, uscii per mangiare qualcosa. Il portiere non era più al suo posto e la cosa anziché sollevarmi m’innervosiva, correvo il rischio di vedermelo di nuovo sbucare all’improvviso da chissà dove.
In strada mi affrettai verso dove le luci si facevano più fitte e indistinte, alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Ora che l’ansia si era calmata, stavo improvvisamente iniziando a sentire i morsi della fame. 
Dopo dieci minuti di cammino mi trovai all’inizio di un viale largo e illuminato, probabilmente il corso centrale della cittadina, costeggiato su entrambi i lati dalle sfavillanti vetrine dei negozi e ornato da arcate di colorate luci natalizie. La gente passeggiava lentamente, in coppia e a piccoli gruppetti di familiari o amici, completamente priva di quel nervosismo frettoloso che ha quando deve correre da qualche parte. L’aria profumava di zucchero filato e costose eau de toilette da signora, piccole folle sostavano nei pressi di caffetterie e tavole calde, che come tante stufe diffondevano attorno a loro calore e odore di cibo.
M’infilai nella prima pizzeria che trovai, un minuscolo locale interamente occupato da tavoli di legno dove alcune persone consumavano tranci di pizza al taglio. Uscendo imboccai senza pensare una stradina laterale, per evitare quella festante confusione serale e l’atmosfera natalizia che mi metteva un’inspiegabile tristezza. Mi spaventai moltissimo quando mi sentii tirare per il cappotto dal basso, come se un cane ne avesse addentato un lembo e lo stesse strattonando a tutta forza.
Mi tirai indietro, emettendo un gridolino spaventato.
La ragazza mi fissò con gli occhioni sgranati, visibilmente dispiaciuta. Si prodigò in frenetici segni con le mani, muovendo anche la bocca che però non emetteva nessun suono, e alla fine abbandonò le braccia in grembo, mortificata e visibilmente esausta per lo sforzo. Era seduta a terra, la lunga gonna rossa attorcigliata alle gambe e uno scialle di cotone nero a coprirle le spalle nude; vestiva come una zingara, ma tutto il resto nel suo aspetto indicava che non lo era affatto: aveva capelli lisci e sottili, così biondi da sembrare bianchi, e la pelle lattea modellata in tratti delicati, spruzzati di lentiggini. In un altro luogo l’avrei definita bellissima, lì per lì pensai solo che sembrava spaventata e triste. Mi guardava supplicante, tendendomi un cesto in vimini foderato di rosso che conteneva una manciata di monete di poco valore. Tirai fuori il portafoglio e impulsivamente vi depositai una banconota.
«Comprati uno scialle caldo» le dissi, non sapendo se avrebbe capito.
Era incredibile come riuscisse a non tremare schiaffeggiata da quella gelida tramontana che riusciva a insinuarsi perfino sotto gli abiti. 
Lei sorrise e mise via il cesto facendomi segno di allungare la mano. Quando me la prese tra le sue, minuscoli tizzoni di ghiaccio che mi fecero sussultare, pensai volesse leggermela. Invece ci mise dentro un pacchettino di carta ruvida e mi chiuse in pugno, tornando a poggiarsi contro il muro e disinteressandosi completamente a me. Guardai esterrefatta quel piccolo dono e, non sapendo che fare, mormorai una generica frase di saluto e andai via.
Nel tragitto fino all’albergo agitai senza sosta il pacchettino che emetteva un tintinnio simile a quello di un campanello di metallo, e una volta in camera spiegai la carta marrone in cui era avvolto. Se possibile il mio stupore aumentò ancora quando mi trovai tra le mani una bottiglietta di vetro trasparente, ricolma di granelli di sabbia colorati che immaginai essere sali da bagno e chiusa con un tappo di sughero. Sul vetro era incisa una specie di filastrocca:

Animo di mare, vento di tempesta, gridale forte che lei sola non resta
Animo di mare, vento di ponente, dille solo che è sempre nella mia mente
Oh animo soave, pozzo di malinconia, fa si che lei ritorni a esser mia

Era dolce e insieme triste, perfettamente aderente al mio umore di quella sera, e più volte me la ripetei a mente sotto la doccia e poi a letto, mentre scivolavo lentamente nel sonno. Mi risvegliai dopo quelli che mi parvero pochi minuti, improvvisamente all’erta, con la certezza che il mio sonno fosse stato interrotto da qualcosa. Nelle fitte tenebre della stanza riuscivo appena a distinguere la sveglia digitale i cui numeri lampeggiavano debolmente di verde.
Era da poco passata la mezzanotte. Accesi la luce, cercando di capire cosa poteva esser sbattuto o caduto, ma era tutto in ordine: la finestra chiusa, la valigia poggiata contro il muro e i vestiti accatastati sulla sedia. Stavo per ributtarmi il piumone sulla testa, quando lo udii.