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martedì 26 febbraio 2013

Alessandra Cristofari – "Free Pussy Riot!

Chi mi segue su YouTube sa che ho deciso di non recensire più tutti i libri che recensivo un tempo, sia perché materialmente non riesco più (ho le ore contate), sia perché stava diventando un vero e proprio lavoro – e invece desidero continuare a godermi appieno libri che scelgo io, anche molto vecchi (del resto un buon libro è per sempre). In questo modo, inoltre, potrò dedicare più attenzione a libri che secondo me meritano davvero… come questo che vi presento oggi e che vi consiglio vivamente, anche se non siete fanatici dei saggi, perché comunque è di semplice lettura, diretto, immediato, mai noioso. 
La vicenda è quella, nota ai più, del gruppo musicale “Pussy Riot!”, costituito da tre ragazze russe arrestate perché hanno “osato” protestare contro quello che è diventato un vero e proprio regime, ossia la Russia di Putin. 
È un libro che merita moltissimo, presto lo recensirò più dettagliatamente e spero anche di riuscire a intervistare la bravissima autrice, Alessandra Cristofari, redattrice del magazine “Giornalettismo”.


Con la prefazione di Sabina Guzzanti.
Sono donne, sono in tre e hanno deciso di sfidare il regime dell’ultimo Zar di Russia. Putin le ha spedite in prigione e le loro chitarre hanno smesso di suonare, ma la lotta disarmata contro la censura di Stato continua. 
Free Pussy Riot!, scritto con la penna ironica e pungente di Alessandra Cristofari, svela la storia della punk band, riportando notizie inedite e segreti che sinora erano stati taciuti e raccontando, con rigore e dovizia di informazioni, la nascita del movimento, le ragioni della protesta, il contesto storico, politico e religioso che la circonda, e poi ancora: gli arresti, le esibizioni di forza di Putin, la Chiesa ortodossa, la repressione dei dissidenti. Un viaggio magmatico nell’universo della politica russa, che rende testimoniaza a chi ha avuto il coraggio di spezzare con la propria parola il cemento dell’ingiustizia: Anna Politkovskaja, Alexander Litvinenko, Anastasia Baburova, Natalya Estemirova, Leonid Razvozzhayev sono solo alcune delle voci che si sono sollevate contro la censura e l’imbavagliamento del sistema russo. Quando poi è la musica a diventare protesta politica, tacere è davvero un delitto.

martedì 19 febbraio 2013

Ho bisogno del vostro aiuto!

Ciao amici lettori!
Oggi vi scrivo perché vorrei un vostro parere su un racconto che sto scrivendo. Questo è l’incipit. Non riesco a essere obiettiva con me stessa, ma tanto credo non ci riesca nessuno… quindi siatelo voi, siate obiettivi, anzi, di più, spietati :-) !!! Un abbraccio, se potete commentate.

Velletri, oggi.

Ancora quella maledetta musica!
Era tornato, come ogni settimana. Supponeva fosse trascorsa proprio una settimana dall’ultima volta che era venuto a trovarla, ma non poteva saperlo con certezza. Nessuno le diceva niente, lì, e lei non mai domandava nulla. Le bastava starsene rannicchiata sotto le coperte e dormire. Avrebbe voluto dormire per sempre. E invece quell’uomo non la lasciava in pace.
Entrava, salutava cortesemente, sistemava il giradischi in un angolo e dopo aver armeggiato un po’, iniziava la musica. Una musica orribile, che lei non voleva sentire.
Ma non voleva nemmeno parlargli. Perciò restava in silenzio, si faceva più piccola tra le ruvide lenzuola d’ospedale, tirava la coperta infeltrita fin sulla fronte e si premeva il cuscino contro le orecchie. Aspettava solo che l’uomo se ne andasse.
Senza di lui, le giornate trascorrevano avvolte da una rassicurante routine. A metà mattina arrivava qualcuno a caricarla su una carrozzina per portarla a fare un giro nel parco.
Era primavera inoltrata, ma lei a volte sentiva così freddo, nonostante la coperta che teneva sulle gambe, che era costretta ad aprire bocca per chiedere all’infermiere di riportarla in camera.
Il pomeriggio la sistemavano accanto alla finestra, e allora poteva osservare indisturbata la danza delle foglie nel vento e i riflessi ambrati della pioggia che luccicava sui vetri. Pioveva spesso.
Brevi temporali primaverili che duravano il tempo di una canzone. Poi il sole squarciava il cielo, concedendole qualche istante di abbagliante, rassicurante cecità. Le piaceva stare alla finestra e osservare il mondo, un mondo di cui non faceva più parte, ma provava anche molta paura. La paura era iniziata il giorno in cui si era svegliata senza ricordare nulla. Si era alzata, dolorante, perché lo stimolo di urinare era più forte del sonno.
In bagno, aveva colto il riflesso dello specchio.
Dagli occhi l’immagine aveva raggiunto la gola ed era esplosa in un urlo senza fine.

Roma, 1979

Camminava senza una meta precisa per le vie della capitale.
Doveva sforzarsi per non mettersi a correre. A volte, come quel giorno, aveva come l’impressione di poter esplodere da un momento all’altro. Lei non era fatta per quella vita. Lei voleva viaggiare, vivere d’avventura, sentire sul palato il sapore salmastro dell’oceano e attraversare la Francia in treno, fino alla vagheggiata Parigi, fino a mangiare brioches seduta a un tavolino affacciato su un affollato boulevard, con le foglie rosse e gialle che volteggiano allegre nel vento. Da lì raggiungere il porto di Marsiglia su un’auto decappottabile, il vento a scompigliarle i capelli, mano nella mano con l’ultimo amante francese e poi… Un urto improvviso la fa sbattere contro una panciuta massaia dall’aria arcigna.
– Signorina, ma guardi un po’ dove va! – la rimbecca quella, fissandola con odio.
Adele non fa in tempo a scusarsi che è già sparita, i fianchi larghi ondeggianti sotto il peso delle buste della spesa. Odore di pane croccante, ancora caldo, appena sfornato. In quella città piena di traffico fa in fretta ad andar via. La rabbia è svanita all’improvviso, sostituita da una familiare, cupa rassegnazione. E voglia di piangere, che quella non l’abbandona quasi mai.
A chi vuol darla a bere?, si chiede. La sua vita non cambierà mai.
La sua vita è l’Ostiense e la bettola puzzolente di suo padre. La sua vita è la botteguccia in cui lavora come sarta, una tra le tante che sperano di sposarsi presto per sottrarsi a una vita fatta di aghi nelle dita e spine nel cuore. Non è la vita che sogna lei. Accelera il passo, sa che se la signora non la vedrà tornare nel giro di mezz’ora, saranno guai grossi.
Si infila in una viuzza, magari farà prima. 
Le strade corrono veloci mentre accelera il passo e le manca il fiato, scansa fruttivendoli e pedoni, respirando a pieni polmoni per togliersi di dosso quell’angoscia che la perseguita. Imbocca un’altra stradina laterale e si ferma di colpo, confusa.
In lontananza il Colosseo non si vede più, credeva di aver preso la direzione giusta ma è ormai evidente che non è così. Si guarda intorno. Non riconosce le case, le botteghe; persino il cielo ha un colore diverso in quella zona sconosciuta di Roma. Il sole sta lentamente scomparendo, risucchiato da nuvole color pece, i tuoni in lontananza annunciano l’arrivo di un temporale.
Fa troppo caldo, da un po’ di giorni a quella parte. Il sudore si appiccica sulla pelle anche di notte, quando dalla finestra spalancata l’alito afoso di luglio corre sui tetti. È stanca, rassegnata, triste, e probabilmente perderà il lavoro.

domenica 17 febbraio 2013

Non mi lasciare mai

Ciao amici!
Il giveaway del romanzo “Tre cuori e un bebé” si è chiuso il giorno di San Valentino, in settimana pubblicherò i risultati sul blog. 
Ho deciso che oltre al romanzo cartaceo, i primi cinque estratti riceveranno l’e-book del romanzo… desidero che più persone leggano un romanzo che io considero bellissimo! Non frattempo sto preparando un altro giveaway che spero apprezzerete. Sono giornate dense di pensieri, progetti e novità: il volume nato dal concorso “Amore e Musica” sta pian piano prendendo corpo, ormai mancano solo il mio racconto e la copertina… spero di potervelo presentare molto presto! Nel frattempo sono tornata a fare video-recensioni (potete trovare la nuova qui) e vi lascio con uno dei pezzi preferiti di quello che è uno dei miei film preferiti di sempre, “Se mi lasci, ti cancello” (“Eternal sunshine of the spotless mind”)… è impossibile descrivere le sensazioni che ho provato la prima volta che l’ho visto. 
È uno di quei film che fanno male, tanto male, ma che vanno visti assolutamente. Ve lo consiglio davvero.


Clementine: Joel…
Joel: Sì, mandarina…
Clementine: Io sono brutta?
Joel: Uhm?
Clementine: Quando ero piccola pensavo di sì. Non è possibile: l'ho detto e già piango. I grandi non capiscono quanto ci si può sentire soli da bambini, come se tu non contassi. Io avevo 8 anni e avevo dei giocattoli, delle bambole: la mia preferita era una bambola brutta che io chiamavo Clementine e la sgridavo in continuazione: non devi essere brutta, sii bella! Che assurdità. Come se, potendo trasformare lei, potessi per magia cambiare me stessa.
Joel: Sei bella.
Clementine: Joel, non mi lasciare mai.
Joel: Sei bella sei bella sei bella.

domenica 3 febbraio 2013

Più di mille baci

Non sono una fan di Ramazzotti. Per niente. Però oggi dopo tanto tempo mi è capitato di risentire questa canzone, ed è strano l’effetto che fanno certe canzoni, anche quelle che non ti piacciono. 
Ti catapultano indietro nel tempo e in pochi secondi è come se ti crollassero addosso tutti insieme ricordi, immagini, emozioni e sensazioni di un tempo preciso, è come ritornare ad attimi già vissuti e trovarcisi di nuovo immersi fino al collo, anche se è pura illusione perché il tempo è passato – tanto, troppo tempo è passato nel frattempo – e niente è come allora. Estate 2009, e chi se la dimentica. Una valanga di brutti ricordi, tutti tranne te. 
E me lo ricordo benissimo quel giorno. Nella tua auto, sotto casa mia, tu che ridendo mi tiravi dentro per baciarmi ancora una volta, e questa canzone che faceva da sottofondo ai nostri baci incerti, appassionati, voraci, curiosi, tristi, disperati, con la voglia di andare oltre e la consapevolezza di dover aspettare ancora qualche giorno – giorni che ci sembravano infiniti – prima di ritrovarci a baciarci sotto le stelle, e quella volta andare fino in fondo con la sabbia che ci graffiava la pelle e l’ansia di non piacerci troppo, non così troppo da stare male, non questa volta, non noi. 
Di nuovo noi a soffrire. Credevo fosse solo per dimenticare, e invece era perché eri tu, tu che mi guardavi con quegli occhi celesti che sembravano abituati a tutto, ma non erano abituati a me, e me lo facevi capire in mille modi, mentre io cercavo solo di non pensare.
Sono molti più di mille i baci che ci siamo scambiati nei nostri anni vissuti vicini, pelle contro pelle, incollati a tratti e poi di nuovo lontanissimi, pensieri su pensieri da combattere come se fossimo noi i diretti responsabili del nostro cuore, come se non potessimo più permetterci di amare. 
Frenarsi vuol dire anche non parlare e lasciare che le parole non dette ti esplodano dentro, lacerandosi. 
Frenarsi vuol dire mettere in un bacio tutto ciò che senti e sperare che l’altro capisca senza bisogno di parole, credere che possa capire ciò che nemmeno tu sai se è reale o soltanto un’altra illusione. Siamo stati così attenti a non farci male, che siamo riusciti a farci solo una minima, infinitesimale parte del bene che avremmo potuto, che avremmo meritato. E mi manchi, mi manchi davvero tanto, e lo so che ti manco altrettanto. 
Lo so perché, a differenza mia, tu hai sempre lasciato che io capissi un po’ di più. E riascoltando questa canzone mi viene solo da ringraziarti per tutto il bene che mi ha fatto, per tutte le volte che ci sei stato in silenzio, per tutti gli abbracci, per quello sguardo divertito e assorto e assieme rassegnato, che non te lo so spiegare a parole ma che appartiene solo a te, a te che sei stato amico e amante, a te che hai visto in me ciò che io non volevo più a vedere. 
E questa sera che va un po’ così, che ho solo voglia di stare sola e pensare, ascoltare questa canzone è come tornare indietro a quell’estate e ai due ragazzi che si baciavano appassionatamente in un’auto, a mezzogiorno, sotto il sole che picchiava, e si baciavano come se non ci fosse niente oltre quei baci, nessun futuro e nessun dolore, nessuna promessa da fare e poi infrangere finché l’amore sono solo due labbra incollate. E mute.

venerdì 1 febbraio 2013

Vorrei sapere quando ti ho perso...

Vorrei sapere quando ti ho perso
in quale data
in che momento
forse quel martedì ch’ero triste
o un mese prima d’averti visto
forse quella domenica pomeriggio
ch’ero allegra e parlavo troppo di me
forse in una data remota
inesplicabile e ignota
come il tre marzo del millenovecentotré

Vorrei sapere dove ti ho perso
in che punto preciso della città
forse davanti ad un semaforo
forse in un bar o in una stanza
forse dentro ad un sorriso
forse lungo una lacrima
che colava giù per una guancia
forse tra le aureole gialle dei lampadari
sospese nella nebbia dei viali.

Vorrei sapere perché ti ho perso
il motivo la necessità dell’errore
forse perché non c’è tempo
o perché c’è stato l’inverno
e adesso viene la primavera
ma con tanto poco sole
tra i muri d’acciaio e cemento
che tremano per il rumore
delle macchine, delle fabbriche, degli ascensori.

Ma non voglio sapere che ti ho perso
che ti ho perso e dove e quando e perché.

JOYCE LUSSU