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venerdì 14 settembre 2012

La prima volta

Qualche mese fa, “Il messaggero” aveva indetto un concorso letterario intitolato “Donne che fanno testo”. Ho deciso di partecipare, credendo nella correttezza dei meccanismi di selezione e nella limpidezza dell’organizzazione (cosa che in Italia… lasciamo stare va!).
Come sempre, rispetto i tempi di consegna, rispetto le battute, rispetto persino il tema da trattare (cosa che in molti racconti era del tutto assente). Secondo il regolamento, tutti i racconti pervenuti entro il termine utile di invio sarebbero stati pubblicati sul sito, dove scaricarli e leggerli; solo i vincitori, selezionati da anonima giuria, sarebbero stati pubblicati sulle pagine de “Il Messaggero”. Invio e attendo, speranzosa, di veder apparire il mio racconto sul sito. Niente. Passano i giorni, scrivo una mail di richiesta informazioni su che fine avesse fatto il mio racconto (il forum di invio diceva che era stato inviato correttamente, mi era addirittura arrivata conferma di ricezione da parte del destinatario), non ricevo risposta e intanto il mio racconto non si vede. Passano altri giorni, il concorso scade, ma sempre niente. Mando un’altra mail, sempre cortese e umile, come purtroppo sono io, ma ovviamente non ricevo risposta. Non mi vergogno di dire che ci sono rimasta male. 
Ci sono rimasta male non certo perché pretendevo di vincere, ma perché sono stata ignorata, perché se uno redige un regolamento, poi è tenuto a rispettarlo.
Ci sono rimasta male perché io lavoro e scrivere con una scadenza, per quanto mi piaccia, occupa pur sempre tempo, e ne farei a meno se sapessi che il mio lavoro non merita nemmeno una risposta di un rigo. Ci sono rimasta male perché anche se siamo in Italia, mi aspettavo un po’ più di serietà. Poiché sull’omonimo gruppo del concorso su FB ho conosciuto molte persone deliziose che mi hanno chiesto del mio racconto, ho deciso di postarlo qui; il tema era “un giorno ti svegli e ti scopri diversa”, o giù di lì, non ricordo esattamente le parole.
Beh, per me non c’è cambiamento più grande di una ragazza che diventa donna. Questo racconto lo dedico a tutte le donne che lo leggeranno, a quelle che come me credono che la prima volta debba per forza essere speciale, con una persona speciale, che indipendentemente da tutto ricorderemo per sempre.

La prima volta

Quando aprì gli occhi, quel mattino, non c’era una sola parte del corpo che non le dolesse.
Le palpebre fremettero a lungo, sfidando le lame di luce che fendevano la tapparella, prima di accettare la sconfitta e schiudersi pian pianino come le ali di una farfalla assonnata. Attorno a lei non era cambiato nulla. 
Nel mucchietto di vestiti che giaceva a terra, ai piedi del letto, poteva distinguere il pizzo color lavanda del reggipetto che aveva indossato la sera prima. Sul comodino, il libro che la madre le aveva regalato per il suo ultimo compleanno.
Sulla scrivania, per terra, tra i mobili, ovunque oggetti familiari che raccontavano storie, ricordi che tornavano alla mente intuendo forme appena accennate. No, non era cambiato niente. E invece era cambiato tutto. Si stiracchiò mollemente, tendendo i muscoli che le facevano più male. Crogiolarsi in quel tiepido dolore era una delle cose più piacevoli che le fossero mai successe. Era… euforizzante! Strinse più forte le gambe, avvertendo lo stimolo a urinare. Incollate l’una all’altra dalla prima calura estiva, le cosce sembravano non volerne sapere di schiudersi. Pelle soda, umida e tesa, incollata dal piacere.
Quando si recò in bagno, urtando i mobili e quasi inciampando nei vestiti sparsi sul pavimento, dovette farsi forza per non svenire. In piedi, le gambe le tremavano. Tornò a letto ridacchiando. Le gambe ancora strette, un sorriso ebete stampato in faccia, crollò sul materasso umido e tirò su il lenzuolo fino al mento. Per la prima volta dacché era successo, si concesse di ripensare alla sera precedente. Dovette interrompersi e ricominciare più volte, riavvolgendo il filo dei ricordi quando erano passati appena pochi secondi dall’inizio della pellicola.
Cambiò idea e andò a farsi un caffè. Era una domenica di giugno, la casa era vuota, fresca e oscura. I suoi erano andati a mare. Raggiunse la cucina sgambettando a piedi nudi sul corridoio di marmo. Senza che ce ne fosse bisogno, si alzò sulle punte per versare il caffè lasciato nella moka.
Il fresco del pavimento irradiava un lungo brivido su per il corpo, guizzo gelido che la faceva tremare in canotta e mutandine di cotone, la sua tenuta notturna estiva.
Quel brivido la percorreva tutta ma scansava accuratamente il Centro, il fuoco che bolliva in profondità e non le dava tregua. S’insinuava nei pensieri, non riusciva a controllarlo.
Improvvisamente sentì il bisogno di andarsene, di uscire. Si sentiva piena di vita.
Voleva correre, indossare un vestitino di cotone e fare la ruota come quando era bambina.
Un vestito odoroso di pulito, larghissimo, di un bianco accecante. Tessuto grezzo, resistente. Un attimo dopo sentiva l’insopprimibile bisogno di urlare. 
Di ballare fino a perdere le forze. A gambe chiuse. 

Canticchiando, improvvisando passi di danza, la tazzina che sobbalzava e il caffè a macchioline sulla canotta, era già in camera.
Bevve d’un fiato. Caffè tiepido, onde concentriche che propagavano quel lieve calore per tutto il corpo, incendiandolo. Ecco di cosa aveva bisogno: ghiaccio!
Cubetti duri come pietra grezza da far scivolare sulla pelle arrossata. Irritata dalla barba, dall’acre del sudore. Pelle su pelle, saliva, pH e cellule isteriche. Pensò di andare a prenderne nella ghiacciaia, ma l’istante dopo se n’era già dimenticata.
Per puro caso, aveva incrociato il suo riflesso nello specchio ovale sopra la cassettiera. Distolse lo sguardo. Abbassò il capo, buttò in avanti i lunghi capelli. Mise su la musica e ballò come una pazza fino a non poterne più. Rise senza un motivo.
Si sentiva folle, e come tutti i folli non aveva più paura. Era invincibile. Eppure, chissà perché, non era ancora pronta a ripensare alla sera prima.
Alcuni ricordi andavano affrontanti con cautela, bisognava lasciar trascorrere un decoroso intervallo di tempo. Era quello il caso. Si ributtò su materasso. In quello stato non era in grado di far nulla. Solo ridacchiare come per uno scherzo che conosceva solo lei. E lui. Ovviamente. Il calore tornò, moltiplicato per mille. La pelle prendeva fuoco, le veniva da piangere. Lacrime caldissime, che sapevano di Scirocco, di salsedine e di sudore. Un sapore che non era suo.
Non aveva fatto la doccia, la notte prima. Era crollata a letto serrando forte le cosce, accoccolandosi come un riccio per portarsi le gambe vicinissime al petto. Tante spine le pungevano il cuore, già non era più la stessa. Era felice, ma piangeva. Non trovava pace.
Il sonno l’aveva trascinata in un luogo in cui la consapevolezza del presente non avrebbe potuto raggiungerla. Voleva chiudersi e aprirsi, difendersi dallo strazio di lottare tra la voglia e il ritegno, l’involontario pudore, l’atavica vergogna, la goffaggine dei suoi diciassette anni.
Si chiedeva come fosse possibile, in una sola notte, allontanarsi tanto da se stessa. C’erano voluti anni per mettere quella stessa distanza tra l’adolescente e la bambina. La creatura, come la chiamava la nonna. Inspirò a fondo, espirò piano.
Un odore così estraneo non era mai stato così vicino. Pelle contro pelle. Non avrebbe potuto lavarlo via, non con acqua e bagnoschiuma. Scacciava via le immagini della sera prima come si scacciano i baci più pericolosi, quelli che li dai e non sai più chi sei, non sai più che fai. Trattenne il respiro e piano, molto piano, schiuse appena le gambe. Non le faceva più male.
Si sentiva indolenzita, al centro di un gorgo che attirava a sé tutte le energie, lasciandola spossata. Per la prima volta capiva cosa volesse dire non distinguere dolore, piacere e intontimento.
La rivoluzione tra le gambe. Niente di più normale, a sentire la gente parlare, a guardare la televisione. Sesso, sesso, sesso. E invece… invece era come se il mondo fosse crollato in una notte e costruito di nuovo. Ogni cosa aveva molti sensi, infiniti aggettivi, il prima e il dopo.
E invece bisognava far finta di nulla, fare le cose di sempre.
Non voleva che la prendessero per pazza. Tutte sue amiche l’avevano già fatto. Lei aveva detto che aveva fatto sesso la prima volta un paio di anni prima, con uno straniero conosciuto al mare. Si stupiva che non le avessero letto la menzogna in faccia.
Solo allora capii che anche loro dovevano aver mentito.
Il corpo non mente. Lei non era mai stata così consapevole del proprio corpo, prima.
Una consapevolezza dolorosa e insieme euforizzante, che le toglieva il fiato. Ogni volta che passava davanti a uno specchio, si scopriva a sbirciarvi furtivamente la propria immagine, sorpresa come se guardasse una sconosciuta con le sue stesse fattezze, familiari e al tempo stesso estranee. Inquietanti. Se i suoi occhi incrociavano per caso quelli dell’altra, la sconosciuta, distoglieva immediatamente lo sguardo, intimorita. Era una forma di rispetto.
E poi la frustrazione di non sentirsi all’altezza dell’immagine. Le sembrava che le sue goffe movenze mal si adattassero alla donna dello specchio. Non sapeva bene come muovere i fianchi ingombranti, desiderava scoprirsi i seni e lasciarseli accarezzare. Provava vergogna. I pensieri svanirono quando il cellulare squillò. Le immagini della sera prima di colpo le affollarono la mente, tutte insieme. Si scoprì a balbettare. Anche la voce di lui tremava.
Erano coetanei, avevano fatto le medie insieme. Più o meno una vita fa. In quella scomoda alcova che era la macchina del padre di lui, si erano promessi l’eternità.
Protetti dal buio, si erano sussurrati stupidi e inconfessabili segreti. E poi era successo. Gli intrecci di gambe avevano lasciato impronte e lividi, le mani sudate, i vestiti stropicciati, l’amore fatto male, fatto semplice, urgente, un baratro da cui buttarsi nell’età adulta.
Unico paracadute, un palloncino già sgonfio che lui non sapeva come infilare. E poi quel senso di pienezza, la sensazione che non sarai mai più sola, mai più l’unica, l’incompresa. Il dolore che resta, il silenzio dei pensieri, lo stupore come davanti a un miracolo. L’incastro con la metà mancante. Solo una sensazione, una bugia che avrebbe scoperto col tempo. Quella notte non c’era fretta. C’era solo l’urgenza di ritrovarsi, di incastrarsi di nuovo l’una nell’altro per non sentirsi più soli. Mai più.
Prima di prepararsi per la serata, la ragazza si guardò allo specchio e sorrise. No, non era più lei. Ancora bambina, quella mattina si era svegliata già donna.



2 commenti:

  1. Ross è un racconto meraviglioso così semplice e delicato ma molto profondo! :) tesoro mi spiace ti abbiano ignorata così non lo reputo affatto corretto!!! Non preoccupare apprezzeremo noi lettori del blog :)

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  2. Ti ho trovato per caso navigando nel web, complimenti per il racconto, molto bello. Se ti va vieni a trovarmi nel mio blog, ci sono tante novità e iniziative per autori emergenti e o scrittori che cercano altra visibilità:
    http://voltarepaginaditizianacazziero.blogspot.it/ .
    Un saluto
    Tiziana

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