Spiaccicai
il naso contro il finestrino cercando di capire dove ci trovassimo.
Il
treno, semideserto in quel martedì d’inizio dicembre, era diretto con oltre due
ore di ritardo verso Milano.
I pochi, insonnoliti passeggeri erano perlopiù
gente d’affari che aveva sonnecchiato per tutta la durata del viaggio, cullata
dal costante ronzio del treno e dall’aria calda che investiva lo scompartimento
a ondate regolari. Un’inconsistente patina di brina e nevischio era scesa a sbiancare
le dolci curve degli Appennini, rallentando ulteriormente il già disastrato
traffico ferroviario.
Sospirai
piano e mi morsi forte il labbro, cercando di non farmi prendere dall’ansia.
Era
tardi, non sarei mai riuscita a prendere una coincidenza che mi consentisse di
arrivare a destinazione prima di mezzanotte, tanto valeva scendere alla
prossima fermata, cercarmi un albergo dove passare la notte e riprendere il
viaggio il mattino dopo, tranquilla e riposata.
C’è
un’inspiegabile magia nei viaggi fatti in treno al calar della sera, nel modo
in cui l’oscurità sfreccia fuori i finestrini intervallata da lampi di luce che
lasciano dietro di sé minuscole scie, simili a stelle cadenti poste a indicarci
attimi e luoghi che non conosceremo mai.
Scesi
in una stazione deserta, spazzata da un vento freddo e infuriato che sollevava
polvere e carte, facendole volteggiare come coriandoli in minuscoli tornado. La
sala d’aspetto era sporca e desolata sotto il fascio di un neon che andava a
intermittenza e le pensiline oscillavano pericolosamente, creando strani giochi
di ombre sui muri sporchi e scrostati.
Si trattava di una piccola città di
mare, di quelle che d’estate venivano letteralmente prese d’assalto da turisti
inferociti, ma che d’inverno recuperavano tutta la loro placida e desolata
solitudine.
Nel
piazzale antistante, i posteggi per pullman si susseguivano vuoti fino a un
edificio malandato che sembrava un misto tra un’edicola, un bar e una sorta di
biglietteria. Mi avvicinai con tutta la velocità consentita dal valigione che
mi trascinavo dietro. Un omone grande e grosso, che da solo occupava quasi
l’intero gabbiotto, facendolo sembrare minuscolo, m’informò con un grugnito che
l’Hotel più vicino era il San Cristoforo, a duecento metri sempre dritto.
Preferii non disturbarlo ulteriormente mentre infilava un enorme dito nel naso
e riprendeva in mano la rivista che stava sfogliando al mio arrivo.
Mentre
camminavo mi accorgevo di come la città attorno a me cambiasse
impercettibilmente.
Dopo
svariati metri di negozi chiusi e saracinesche abbassate, anonimi portoni di
condomini di periferia e bidoni della spazzatura ricolmi, incontrai finalmente
il primo ristorante aperto, un take-away cinese, e le luci brillanti e colorate
di insegne e vetrine si sommarono alla luce fredda dei lampioni, facendomi
intendere con sollievo che se non altro mi stavo dirigendo verso il centro
città.
L’albergo
era un severo edificio a cinque piani, simile in tutto e per tutto a un palazzo
di uffici a eccezione dell’entrata, una porta a vetri con sopra un elaborato
stemma che introduceva in un atrio flebilmente illuminato, adornato da un
enorme, logoro tappeto e gruppetti di malconce poltrone di pelle.
Mi guardai
intorno, intimorita. Il vecchio televisore all’angolo era spento, e dietro il
bancone non si vedeva nessuno. “Se non altro di sicuro c’è posto”, constai con
sollievo, rendendomi conto che delle cento chiavi ospitate in altrettante
minuscole celle la maggior parte erano al loro posto.
Se
non si fosse presentato nessuno, avrei dovuto decidermi quantomeno a chiamare.
«Buonasera»
dissi quindi, poco convinta.
La
mia voce si perse nell’immenso locale.
Mi schiarii la gola, avrei dovuto fare
di meglio.
«Buonasera!»
tuonò una voce appena dietro di me.
Sobbalzai spaventata.
Prima
che facessi in tempo a voltarmi, un uomo bel oltre la mezza età mi fu davanti.
Era alto e smilzo, con la testa pelata e un paio di sopracciglia bianchissime
aggrottate fin quasi a formare un unico cespuglio indistinto, e mi fissava con
occhi severi sul volto rugoso. Sembrava in attesa di una mia richiesta, così mi
riscossi e parlai con quella vocetta bassa e tremante che mi viene quando ho a
che fare con degli sconosciuti.
«Volevo
sapere se era possibile pernottare qui stanotte…voglio dire, se c’è una camera
disponibile.»
La
risposta mi colse di sorpresa.
«Sei
fortunata, mia cara» disse il vecchio, zoppicando verso il bancone. «Ho
l’ultima camera libera. 87, quinto piano. Colazione domattina alle sette, primo
piano.»
Lo
guardai costernata. Quinto piano? Con tutte quelle stanze libere?
Mi
tendeva una chiave dorata che dondolava lentamente attaccata a un grosso
porta-chiave a forma di mappamondo.
Siccome non mi decidevo a prenderla né a
parlare, alla fine il suo sorriso si tramutò in cipiglio.
«Be’
è vero, non abbiamo l’ascensore, ma purtroppo è l’ultima disponibile, prendere
o lasciare!»
L’idea
di lasciare mi spaventava troppo, così presi la chiave e mi feci difilato
almeno cento gradini. Quando finalmente strattonai la valigia sul pianerottolo
del quinto piano mi sentivo prossima all’infarto. La lampadina di fronte alle
scale doveva essersi fulminata, e il corridoio era immerso in una semioscurità
intervallata solo da un paio di neon sul soffitto. Tutto l’insieme aveva un
aspetto irreale e desolato, col suo silenzio immobile e la moquette scura,
ispida e consumata in più punti. Una freccetta indicava che la mia camera era
sulla destra, era la penultima e sicuramente l’unica occupata dell’intero piano.
Maledissi tra me l’avarizia e l’ostinatezza di quello che mi era sembrato il
portiere: probabilmente quella era l’unica camera che si degnavano di pulire,
assegnandola di tanto in tanto a ignari viaggiatori di passaggio.
Dopo aver
sistemato il mio beauty-case sulla mensola del bagno e riposto un cambio
d’abiti nell’armadio, uscii per mangiare qualcosa. Il portiere non era più al
suo posto e la cosa anziché sollevarmi m’innervosiva, correvo il rischio di
vedermelo di nuovo sbucare all’improvviso da chissà dove.
In
strada mi affrettai verso dove le luci si facevano più fitte e indistinte, alla
ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Ora che l’ansia si era calmata,
stavo improvvisamente iniziando a sentire i morsi della fame.
Dopo dieci minuti
di cammino mi trovai all’inizio di un viale largo e illuminato, probabilmente
il corso centrale della cittadina, costeggiato su entrambi i lati dalle
sfavillanti vetrine dei negozi e ornato da arcate di colorate luci natalizie.
La gente passeggiava lentamente, in coppia e a piccoli gruppetti di familiari o
amici, completamente priva di quel nervosismo frettoloso che ha quando deve
correre da qualche parte. L’aria profumava di zucchero filato e costose eau de
toilette da signora, piccole folle sostavano nei pressi di caffetterie e tavole
calde, che come tante stufe diffondevano attorno a loro calore e odore di cibo.
M’infilai
nella prima pizzeria che trovai, un minuscolo locale interamente occupato da
tavoli di legno dove alcune persone consumavano tranci di pizza al taglio.
Uscendo imboccai senza pensare una stradina laterale, per evitare quella
festante confusione serale e l’atmosfera natalizia che mi metteva
un’inspiegabile tristezza. Mi spaventai moltissimo quando mi sentii tirare per
il cappotto dal basso, come se un cane ne avesse addentato un lembo e lo stesse
strattonando a tutta forza.
Mi
tirai indietro, emettendo un gridolino spaventato.
La
ragazza mi fissò con gli occhioni sgranati, visibilmente dispiaciuta. Si
prodigò in frenetici segni con le mani, muovendo anche la bocca che però non
emetteva nessun suono, e alla fine abbandonò le braccia in grembo, mortificata
e visibilmente esausta per lo sforzo. Era seduta a terra, la lunga gonna rossa
attorcigliata alle gambe e uno scialle di cotone nero a coprirle le spalle
nude; vestiva come una zingara, ma tutto il resto nel suo aspetto indicava che
non lo era affatto: aveva capelli lisci e sottili, così biondi da sembrare
bianchi, e la pelle lattea modellata in tratti delicati, spruzzati di
lentiggini. In un altro luogo l’avrei definita bellissima, lì per lì pensai
solo che sembrava spaventata e triste. Mi guardava supplicante, tendendomi un
cesto in vimini foderato di rosso che conteneva una manciata di monete di poco
valore. Tirai fuori il portafoglio e impulsivamente vi depositai una banconota.
«Comprati
uno scialle caldo» le dissi, non sapendo se avrebbe capito.
Era
incredibile come riuscisse a non tremare schiaffeggiata da quella gelida
tramontana che riusciva a insinuarsi perfino sotto gli abiti.
Lei sorrise e
mise via il cesto facendomi segno di allungare la mano. Quando me la prese tra
le sue, minuscoli tizzoni di ghiaccio che mi fecero sussultare, pensai volesse
leggermela. Invece ci mise dentro un pacchettino di carta ruvida e mi chiuse in
pugno, tornando a poggiarsi contro il muro e disinteressandosi completamente a
me. Guardai esterrefatta quel piccolo dono e, non sapendo che fare, mormorai
una generica frase di saluto e andai via.
Nel
tragitto fino all’albergo agitai senza sosta il pacchettino che emetteva un
tintinnio simile a quello di un campanello di metallo, e una volta in camera
spiegai la carta marrone in cui era avvolto. Se possibile il mio stupore
aumentò ancora quando mi trovai tra le mani una bottiglietta di vetro
trasparente, ricolma di granelli di sabbia colorati che immaginai essere sali
da bagno e chiusa con un tappo di sughero. Sul vetro era incisa una specie di
filastrocca:
Animo
di mare, vento di tempesta, gridale forte che lei sola non resta
Animo
di mare, vento di ponente, dille solo che è sempre nella mia mente
Oh
animo soave, pozzo di malinconia, fa si che lei ritorni a esser mia
Era
dolce e insieme triste, perfettamente aderente al mio umore di quella sera, e
più volte me la ripetei a mente sotto la doccia e poi a letto, mentre scivolavo
lentamente nel sonno. Mi risvegliai dopo quelli che mi parvero pochi minuti,
improvvisamente all’erta, con la certezza che il mio sonno fosse stato
interrotto da qualcosa. Nelle fitte tenebre della stanza riuscivo appena a
distinguere la sveglia digitale i cui numeri lampeggiavano debolmente di verde.
Era
da poco passata la mezzanotte. Accesi la luce, cercando di capire cosa poteva
esser sbattuto o caduto, ma era tutto in ordine: la finestra chiusa, la valigia
poggiata contro il muro e i vestiti accatastati sulla sedia. Stavo per
ributtarmi il piumone sulla testa, quando lo udii.