Qualche
mese fa, “Il messaggero” aveva indetto un concorso letterario intitolato “Donne
che fanno testo”. Ho deciso di partecipare, credendo nella correttezza dei
meccanismi di selezione e nella limpidezza dell’organizzazione (cosa che in
Italia… lasciamo stare va!).
Come sempre, rispetto i tempi di consegna, rispetto le battute,
rispetto persino il tema da trattare (cosa che in molti racconti era del tutto
assente). Secondo il regolamento, tutti i racconti pervenuti entro il termine
utile di invio sarebbero stati pubblicati sul sito, dove scaricarli e leggerli;
solo i vincitori, selezionati da anonima giuria, sarebbero stati pubblicati sulle
pagine de “Il Messaggero”. Invio
e attendo, speranzosa, di veder apparire il mio racconto sul sito. Niente. Passano i giorni, scrivo una mail di richiesta informazioni su che fine avesse
fatto il mio racconto (il forum di invio diceva che era stato inviato
correttamente, mi era addirittura arrivata conferma di ricezione da parte del
destinatario), non ricevo risposta e intanto il mio racconto non si vede.
Passano altri giorni, il concorso scade, ma sempre niente. Mando un’altra mail,
sempre cortese e umile, come purtroppo sono io, ma ovviamente non ricevo risposta. Non
mi vergogno di dire che ci sono rimasta male.
Ci sono rimasta male non certo perché
pretendevo di vincere, ma perché sono stata ignorata, perché se uno redige un regolamento,
poi è tenuto a rispettarlo.
Ci
sono rimasta male perché io lavoro e scrivere con una scadenza, per quanto mi
piaccia, occupa pur sempre tempo, e ne farei a meno se sapessi che il mio lavoro
non merita nemmeno una risposta di un rigo. Ci
sono rimasta male perché anche se siamo in Italia, mi aspettavo un po’ più di
serietà. Poiché
sull’omonimo gruppo del concorso su FB ho conosciuto molte persone deliziose
che mi hanno chiesto del mio racconto, ho deciso di postarlo qui; il tema era “un
giorno ti svegli e ti scopri diversa”, o giù di lì, non ricordo esattamente le
parole.
Beh, per
me non c’è cambiamento più grande di una ragazza che diventa donna. Questo
racconto lo dedico a tutte le donne che lo leggeranno, a quelle che come me
credono che la prima volta debba per forza essere speciale, con una persona
speciale, che indipendentemente da tutto ricorderemo per sempre.
Quando
aprì gli occhi, quel mattino, non c’era una sola parte del corpo che non le
dolesse.
Le
palpebre fremettero a lungo, sfidando le lame di luce che fendevano la
tapparella, prima di accettare la sconfitta e schiudersi pian pianino come le
ali di una farfalla assonnata. Attorno
a lei non era cambiato nulla.
Nel mucchietto di vestiti che giaceva a terra, ai
piedi del letto, poteva distinguere il pizzo color lavanda del reggipetto che
aveva indossato la sera prima. Sul comodino, il libro che la madre le aveva
regalato per il suo ultimo compleanno.
Sulla
scrivania, per terra, tra i mobili, ovunque oggetti familiari che raccontavano
storie, ricordi che tornavano alla mente intuendo forme appena accennate. No,
non era cambiato niente. E
invece era cambiato tutto. Si stiracchiò mollemente, tendendo i muscoli che le
facevano più male. Crogiolarsi in quel tiepido dolore era una delle cose più
piacevoli che le fossero mai successe. Era… euforizzante! Strinse più forte le
gambe, avvertendo lo stimolo a urinare. Incollate l’una all’altra dalla prima
calura estiva, le cosce sembravano non volerne sapere di schiudersi. Pelle
soda, umida e tesa, incollata dal piacere.
Quando
si recò in bagno, urtando i mobili e quasi inciampando nei vestiti sparsi sul
pavimento, dovette farsi forza per non svenire. In piedi, le gambe le
tremavano. Tornò a letto ridacchiando. Le gambe ancora strette, un sorriso
ebete stampato in faccia, crollò sul materasso umido e tirò su il lenzuolo fino
al mento. Per la prima volta dacché era successo, si concesse di ripensare alla
sera precedente. Dovette interrompersi e ricominciare più volte, riavvolgendo
il filo dei ricordi quando erano passati appena pochi secondi dall’inizio della
pellicola.
Cambiò
idea e andò a farsi un caffè. Era
una domenica di giugno, la casa era vuota, fresca e oscura. I suoi erano andati
a mare. Raggiunse la cucina sgambettando a piedi nudi sul corridoio di marmo.
Senza che ce ne fosse bisogno, si alzò sulle punte per versare il caffè
lasciato nella moka.
Il
fresco del pavimento irradiava un lungo brivido su per il corpo, guizzo gelido
che la faceva tremare in canotta e mutandine di cotone, la sua tenuta notturna
estiva.
Quel
brivido la percorreva tutta ma scansava accuratamente il Centro, il fuoco che
bolliva in profondità e non le dava tregua. S’insinuava nei pensieri, non
riusciva a controllarlo.
Improvvisamente
sentì il bisogno di andarsene, di uscire. Si sentiva piena di vita.
Voleva
correre, indossare un vestitino di cotone e fare la ruota come quando era
bambina.
Un
vestito odoroso di pulito, larghissimo, di un bianco accecante. Tessuto grezzo,
resistente. Un
attimo dopo sentiva l’insopprimibile bisogno di urlare.
Di ballare fino a
perdere le forze. A
gambe chiuse.