Non
molto tempo fa l’onorevole Santanchè ha fatto un’esternazione quanto meno
discutibile, paragonando la situazione della Minetti (l’ormai celebre
ex-igienista dell’ex presidente del consiglio Berlusconi, con cui avrebbe avuto
una relazione amorosa non meglio specificata) a quella di Nilde Iotti, accanita
antifascista e apprezzata prima presidentessa della camera, nonché compagna di
Togliatti.
Proprio questo, secondo la Santanché, sarebbe il punto in comune tra
due donne che a me non sarebbe venuto in mente di paragonare neanche nella più
sfrenata ipotesi fanta-politica: entrambe, secondo l’esponente del Pdl,
avrebbero occupato posti di potere in ambito politico in virtù della relazione
con un uomo potente, Togliatti, appunto, e… Berlusconi. “La
Iotti” – ha dichiarato la Santanchè –, “faceva benissimo politica, ma nella
stanza sopra delle Botteghe Oscure. Una compagna comunista da amante a
presidente della Camera dimostra che le scorciatoie aiutano. Se non fosse stata
l'amante di Togliatti non credo sarebbe mai diventata presidente della
Camera". Conclude aggiungendo: "Anche la Minetti non doveva diventare
consigliere regionale, ma le scorciatoie c'erano ieri e ci sono anche oggi,
forse un tempo era peggio".
Facilmente immaginabile le scompiglio creato
da queste affermazioni e il delirio di proteste che si è scatenato sia sinistra
che a destra, tra gli stessi colleghi della Parlamentare del Pdl. Al di là
della palese assurdità del paragone, uno degli elementi più interessanti di
questa polemica è l’astio con cui molte donne guardano alle altre donne, e come
ancora oggi tra loro sia diffuso il sospetto, l’invidia e una reciproca
svalutazione, al posto di una più feconda solidarietà.
Daniela Santanché, paladina di cause pseudo-femministe come la battaglia contro il velo indossato dalle donne islamiche, non si fa alcun problema nello svalutare una donna dello spessore di Nilde Iotti: lo fa per difendere l’indifendibile, dimostrando – in una logica prettamente contemporanea, materialista e oserei dire “berlusconiana” – di confondere l’amore con l’interesse e il sesso con il più volgare dei mercimoni, come se i secoli non fossero mai passati e per le donne aprire le gambe fosse ancora questione più di sopravvivenza che di piacere. Eppure, senza nasconderci dietro una parità dei sessi ben lungi dall’essere raggiunta, i tempi sono davvero cambiati; per capire in che modo, è necessario dare uno sguardo nel passato, a quella Storia che i politici in primis dovrebbero conoscere, se non altro per evitare uscite di dubbio gusto. Fino al Novecento e all’avvento del femminismo, infatti, ogni forma di potere femminile passava necessariamente dalle mani maschili. Per contare qualcosa nella società, una donna – che fosse una vergine o una meretrice, una madre, una figlia o una moglie – doveva servirsi degli unici strumenti che la società le riconosceva, ossia la sessualità e una bellezza “strategiche”, finalizzate cioè alla sopravvivenza. Non potendo lavorare, senza un uomo che la mantenesse – marito, padre o fratello – era infatti destinata a finire in strada, come spesso accadeva alle donne brutte o troppo povere, che potevano contare solo sulla carità dei parenti. In età moderna si assistette a uno sdoganamento bellezza femminile, non più “luogo del peccato” come nel Medioevo, ma valorizzata e decantata in quanto simbolo di bontà interiore e nobiltà d’animo.
Daniela Santanché, paladina di cause pseudo-femministe come la battaglia contro il velo indossato dalle donne islamiche, non si fa alcun problema nello svalutare una donna dello spessore di Nilde Iotti: lo fa per difendere l’indifendibile, dimostrando – in una logica prettamente contemporanea, materialista e oserei dire “berlusconiana” – di confondere l’amore con l’interesse e il sesso con il più volgare dei mercimoni, come se i secoli non fossero mai passati e per le donne aprire le gambe fosse ancora questione più di sopravvivenza che di piacere. Eppure, senza nasconderci dietro una parità dei sessi ben lungi dall’essere raggiunta, i tempi sono davvero cambiati; per capire in che modo, è necessario dare uno sguardo nel passato, a quella Storia che i politici in primis dovrebbero conoscere, se non altro per evitare uscite di dubbio gusto. Fino al Novecento e all’avvento del femminismo, infatti, ogni forma di potere femminile passava necessariamente dalle mani maschili. Per contare qualcosa nella società, una donna – che fosse una vergine o una meretrice, una madre, una figlia o una moglie – doveva servirsi degli unici strumenti che la società le riconosceva, ossia la sessualità e una bellezza “strategiche”, finalizzate cioè alla sopravvivenza. Non potendo lavorare, senza un uomo che la mantenesse – marito, padre o fratello – era infatti destinata a finire in strada, come spesso accadeva alle donne brutte o troppo povere, che potevano contare solo sulla carità dei parenti. In età moderna si assistette a uno sdoganamento bellezza femminile, non più “luogo del peccato” come nel Medioevo, ma valorizzata e decantata in quanto simbolo di bontà interiore e nobiltà d’animo.
Beltà sinonimo quindi di bontà, limpidezza e rigore morale: si creò così un
altro pericoloso connubio, un imperativo che ricordava costantemente alle donne
quanto fosse importante la bellezza per assicurarsi un posto, se non di
rilievo, almeno dignitoso in seno alla società. Alla donna quindi “non resta
che concentrarsi sul proprio aspetto e potenziare al massimo le sue capacità di
seduzione sull’uomo, per raggiungere l’unico obiettivo che la società le ha
ormai reso possibile: la conquista di un marito e quindi di uno status sociale”.
Appare
evidente come il capitale di una donna, quello su cui poteva contare per
realizzarsi, si identificasse quasi esclusivamente con la personale bellezza e
le capacità di esaltarla il più possibile, conservarla al meglio e asservirla
ai suoi scopi.
Nessun peso aveva la sua istruzione, né tanto meno l’intelligenza, poiché l’inferiorità sessuale e intellettuale della donna é stata per molti secoli opinione comune ampiamente condivisa e supportata dalla riflessione filosofica e scientifica. Fu proprio il Settecento, il secolo dell’Illuminismo, a sancire l’oscurantismo più completo della figura femminile e a giustificarne teoreticamente l’estromissione dalla vita pubblica e il ruolo subalterno nella società. Era opinione corrente che la donna fosse stata creata per la felicità dell’uomo, a suo uso e servizio: priva di cultura, povera d’intelletto, non le restava altra qualità che la bellezza fisica.
Una virtù che tuttavia poteva diventare un’arma a doppio taglio, soprattutto per l’uomo, come fa notare Rousseau in alcune sue opere, quali “Emilio” e “La nuova Eloisa”. Il timore della sessualità femminile, ritenuta dirompente e incontrollabile, è sempre stato presente nell’immaginario maschile e religioso, ed ha portato a un controllo esasperato della vita intima delle donne. Se un tempo si tendeva a controllarla reprimendola, oggi la situazione è radicalmente cambiata: le donne, infatti, non sono solo libere di manifestare la propria sessualità come meglio credono, ma sono anzi incentivate a farlo, quasi costrette da un imperativo implicito nei media che impone di fare sesso ovunque, con chiunque, pena essere una specie di emarginati, alieni fuori moda.
Nessun peso aveva la sua istruzione, né tanto meno l’intelligenza, poiché l’inferiorità sessuale e intellettuale della donna é stata per molti secoli opinione comune ampiamente condivisa e supportata dalla riflessione filosofica e scientifica. Fu proprio il Settecento, il secolo dell’Illuminismo, a sancire l’oscurantismo più completo della figura femminile e a giustificarne teoreticamente l’estromissione dalla vita pubblica e il ruolo subalterno nella società. Era opinione corrente che la donna fosse stata creata per la felicità dell’uomo, a suo uso e servizio: priva di cultura, povera d’intelletto, non le restava altra qualità che la bellezza fisica.
Una virtù che tuttavia poteva diventare un’arma a doppio taglio, soprattutto per l’uomo, come fa notare Rousseau in alcune sue opere, quali “Emilio” e “La nuova Eloisa”. Il timore della sessualità femminile, ritenuta dirompente e incontrollabile, è sempre stato presente nell’immaginario maschile e religioso, ed ha portato a un controllo esasperato della vita intima delle donne. Se un tempo si tendeva a controllarla reprimendola, oggi la situazione è radicalmente cambiata: le donne, infatti, non sono solo libere di manifestare la propria sessualità come meglio credono, ma sono anzi incentivate a farlo, quasi costrette da un imperativo implicito nei media che impone di fare sesso ovunque, con chiunque, pena essere una specie di emarginati, alieni fuori moda.
Il
risultato, a rifletterci bene, è lo stesso: se s’inducono le donne a usare le
solite vecchie armi per emergere e ottenere un certo “potere” (effimero come
tutto quello che viene ottenuto mediante il mercimonio sessuale), le si dissuade
dall’usare l’intelligenza e dal lavorare duramente per ottenere un proprio,
meritato, ruolo nella società e nel mondo.
A
pensarci bene, questo meccanismo sottende una concezione della donna che non è
poi così diversa da quella di qualche secolo fa, quando la riflessione
filosofica e la produzione artistica del tempo erano efficacemente supportate
dalla ricerca della medicina, che forniva valenza “scientifica” alle concezioni
del femminile. Si voleva infatti legittimare naturalmente e biologicamente l’ideale
di donna più consono all’ordine sociale androcentrico.
Per
secoli le donne non hanno avuto alcuno strumento a disposizione per difendersi
dai molteplici attacchi della cultura accademica; oggi che invece potrebbero,
molte di esse non solo non lo fanno, ma anzi preferiscono farsi credere stupide
piuttosto che darsi da fare per ottenere un riconoscimento sociale. Un tempo,
tenute nella più completa ignoranza, non potendo lavorare, né avere un’indipendenza
economica, si trovavano in condizioni di assoluta dipendenza materiale e
intellettuale. Anche un eventuale prestigio sociale, era esercitato “per
procura”, nel senso che appartenevano a una classe non a nome proprio, ma attraverso i loro uomini,
padri o mariti che fossero. Trovare marito era dunque l’unico modo in cui la
donna poteva “realizzarsi nella società” e garantirsi la sopravvivenza, ragion
per cui ciò diveniva il fine primario della vita. Cercare l’approvazione e l’ammirazione
degli uomini, assecondare il più possibile il loro gusto e le loro aspettative è
stata per secoli la preoccupazione primaria della donne, in cui investire
energie e salute. La bellezza, dunque, – e in senso implicito la sessualità –
si rivelava l’unica arma a disposizione non solo per raggiungere il potere, ma
anche per la sopravvivenza: non potendo lavorare né sostenersi da sola, senza
un uomo che si occupasse di lei la donna non aveva possibilità di vita. Da qui
quel senso di competizione tutto al femminile che nell’uomo non si evince mai
in maniera altrettanto forte.
La
storia d’amore con Togliatti probabilmente ha aiutato la Iotti a conoscere
meglio le dinamiche di un ambiente, quello politico, a quei tempi ancora molto
diffidente verso le donne. Tuttavia esiste un’abissale differenza tra una donna
preparata, intelligente e probabilmente innamorata, e chi baratta il sesso con
un posto di prestigio e denaro facile. Tanto più che oggi la condizione della
donna è radicalmente cambiate, e si può accedere a posizione lavorativa di tutto rispetto grazie alla propria
preparazione e capacità. Molte donne, però, preferiscono usare le vecchie,
svilenti armi.
Non solo: una volta occupati posti di potere continua a permanere in loro una naturale diffidenza, se non aperta ostilità, nei confronti delle altre donne. L’ipotesi più accreditata per spiegare questo stato di cose è che la dipendenza femminile lasci strascichi genetici assolutamente non superabili in pochi decenni. In parole povere: per secoli la vita femminile è dipesa dall'uomo, padre o marito che fosse. Di qui una competizione tra donne che ha lasciato il segno, facendo sì che ancora oggi la maggior parte di loro veda le proprie simili come rivali piuttosto che potenziali alleate.
Non solo: una volta occupati posti di potere continua a permanere in loro una naturale diffidenza, se non aperta ostilità, nei confronti delle altre donne. L’ipotesi più accreditata per spiegare questo stato di cose è che la dipendenza femminile lasci strascichi genetici assolutamente non superabili in pochi decenni. In parole povere: per secoli la vita femminile è dipesa dall'uomo, padre o marito che fosse. Di qui una competizione tra donne che ha lasciato il segno, facendo sì che ancora oggi la maggior parte di loro veda le proprie simili come rivali piuttosto che potenziali alleate.
Interessanti,
a tal proposito, alcuni studi sulle specializzazioni neuronali, cui in Italia
si è interessata l’antropologa Ida Magli, che da anni studia le differenze
culturali tra uomini e donne. I recenti sviluppi della biologia, afferma la
studiosa, hanno evidenziato la stretta dipendenza tra l’ambiente esterno e le
specializzazioni neuronali (studi di Gerald Edelman); inoltre le localizzazioni
encefaliche preposte a determinate attività sono in grado di modificarsi sulla
base delle necessità (studi di Oliver Sacks). Ciò significa che determinate
inclinazioni e capacità non sono dovute alla costituzione anatomica, ma all’interazione
con un particolare tipo di ambiente, a determinate condizioni di vita. La
maggiore capacità delle donne di comprendere il significato delle espressioni
del viso, ad esempio, sarebbe dovuta al fatto che nei secoli sono state
costrette a prestare estrema attenzione a ciò che le circondava. Non avendo a
disposizione strumenti culturali per interpretare la realtà, la decifravano in
base alle emozioni, il che le ha portate a diventare più intuitive rispetto
agli uomini.
Dunque
le inclinazioni considerate tipicamente “femminili”, quali l’emotività, l’istintività,
la pazienza, la curiosità o il famoso “intuito femminile”, potrebbero non
essere “naturali”, bensì frutto di una consuetudine lunga secoli. Anche la
spasmodica attenzione delle donne per il proprio aspetto fisico, la
competizione e la velata ostilità verso le donne ritenute “più belle”, oggi
come ieri, probabilmente deriva da condizionamenti ambientali e culturali
atavici, e non da una presunta futilità del genere femminile.
Rossella Martielli
Rossella Martielli
complimenti!
RispondiEliminaDavvero un post strepitoso!
RispondiEliminaUn abbraccio Rossella
Grazie ragazze, grazie di cuore!!!
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