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sabato 15 gennaio 2011

A ritroso

(Questo racconto è stato tra i segnalati nell'edizione 2010 del concorso letterario "Arno fiume di pensiero", ed è edito nell'omonima raccolta)


Quando mi sono svegliata, questa mattina, il cielo su Firenze mi ha ricordato quello dipinto da Monet sulla Senna, nei pressi di Argenteuil. Un cielo color vaniglia, così era definito in un film di molti anni fa. Un’indescrivibile e cangiante sintesi tra rosa e giallo pastello, sfumati ai margini in soffici batuffoli di nuvole. Mi è bastato un semplice sguardo fuori dalla finestra e già il respiro si è fatto più regolare. Mi sono stiracchiata pigramente sul lettone matrimoniale occupato solo a metà, e per una volta il pensiero di dovermi alzare e affrontare una nuova giornata non mi è sembrato così intollerabile.
Forse è la vicinanza dell’Arno, forse è perché so che sulle sue sponde ogni tempesta precede sempre il ritorno del sereno; al di là dei momentanei sconvolgimenti, l’acqua prosegue imperterrita il suo percorso sempre uguale. Come le maree, come le stagioni, come il tempo che va e ritorna. È qualcosa che ti rassicura, in un certo senso. Non puoi ostacolare il fiume, non puoi imbrigliarlo né impossessarti della sua forza. Puoi solo stare a guardare, e cercare di capire se tutto questo abbia un senso.
Anche quest’anno è arrivata la primavera, ormai siamo in maggio, e facendomi forza dopo molti anni sono riuscita a tornare a Firenze. Il fatto di avere un compito da portare a termine mi ha stranamente facilitato le cose. Sono passati esattamente cinque anni da allora. Ad alcuni sembreranno niente, ad altri un’eternità.
Probabilmente dipende dal ritmo che ha assunto la nostra vita.
A volte il tempo subisce una brusca decelerata, e pochi attimi sembrano non finire mai, mentre subito dopo passano vent’anni e un giorno ci guardiamo allo specchio, stupefatti, chiedendoci dove siamo mai stati nel frattempo.
Chiedendoci se in definitiva abbiamo vissuto.
Per me credo sia stato proprio così.
C’è stato un tempo in cui pensavo non esistesse amore al di fuori delle sue braccia. C’è stato un tempo – sono volati via solo due anni da allora, ma la mia memoria si ostina a contare dieci giorni per ognuno di quelli che ho passato senza di lui, col risultato che questo periodo dilatato mi sembra ormai infinito – un tempo, dicevo, in cui ogni nostro passo era sincronizzato, ogni desiderio condiviso, ogni tenero sguardo intercettato e ricambiato. Un tempo in cui riuscivo a respirare senza dover sollevare ogni volta quest’odioso macigno che ho sul petto. Se ci ripenso oggi mi sembra quasi impossibile.
Era una fredda e piovosa mattina di ottobre quando mi lasciò.
E mentre il mio cervello ancora non afferrava il senso della sua frase definitiva, quel “non ti amo più” smozzicato al telefono mangiandosi le parole, le mie orecchie avevano già registrato ogni monosillabo uscito dalla sua bocca.
Avevano diligentemente immagazzinato nella memoria tutto quello che nei mesi a venire sarebbe stato materiale dei miei incubi: il suo sospirare stanco, il suo solito tergiversare, la sua insolita vergogna; avevano captato persino la durata dei silenzi imbarazzati e le interferenze all’apparecchio.
Il mio cuore aveva compreso ancor prima che lui parlasse, e nello stesso istante qualcosa che sin dalla nascita era parte del mio essere si frantumò in diecimila pezzettini e si perse per sempre.
Eppure non posso affermare con certezza che soffrii.
Nei mesi che seguirono io mangiavo, dormivo, studiavo, lavoravo, uscivo con gli amici e coi ragazzi. Tantissimi ragazzi per la verità. Il mio cuore continuava a pulsare sangue e vita nelle vene, il mio corpo era in salute ed ero bella come non ero mai stata prima. Credevo di andare avanti. Di essere simile a un fiume che scorre, e in superficie l’acqua limpida e cristallina riflette come uno specchio i mutamenti del cielo.
Ma sotto, nelle profondità del suo letto – del mio letto – c’era solo morte. Come se una deflagrazione nucleare avesse lasciato intatta una bellezza vuota, priva di vita.
Io non c’ero più. Non sentivo niente.
Anche questa mattina la stanza dell’hotel era surriscaldata, ma non mi sono lasciata ingannare e uscendo ho portato con me un pratico golfino di cotone. In strada, infatti, la temperatura era parecchi gradi più bassa, e sapevo che una volta fuori dall’allegro caos turistico di Firenze sarebbe scesa ancora.
Non so perché non avessi scelto un hotel sul posto. Sarebbe stato la cornice perfetta, il coronamento ideale di un piano assurdo che ad ogni traguardo raggiunto mi sembrava sempre più ragionevole, più sensato. Era la mia ultima possibilità. Soltanto dopo avrei alzato definitivamente bandiera bianca. Basta, ce l’ho messa tutta – avrei detto – ora però chiudo bottega. Evidentemente ero difettata sin dalla nascita, c’era in me qualcosa che proprio non andava, un irrimediabile difetto nel meccanismo di rimozione o qualcosa del genere.
Mi sono inceppata, punto. È così difficile da capire?
Sono andata a piedi alla stazione, e mentre aspettavo il treno per Lastra a Signa sono crollata su una panchina di pietra bianca, già stanca. Nel via-vai di giovani, pendolari e turisti concitati alla ricerca della prossima coincidenza, ho sentito addosso vari sguardi incuriositi. Ho chinato ancora di più il volto. Se avessi potuto avrei volentieri indossato una maschera. Ho poco più di vent’anni e somiglio incredibilmente a una modella, dovrebbe forse servirmi a qualcosa?
Fortunatamente il treno era semivuoto e mi sono sistemata accanto al finestrino, per permettere alla mia pelle di bearsi nel delizioso tepore del primo sole della stagione calda. Una volta arrivata ho proseguito a piedi, incurante del dolore alla caviglia sinistra, quella che mi sono slogata facendo jogging al parco. Quando finalmente sono arrivata a destinazione mi sono stesa sulla sponda dell’Arno, a pochi metri dall’acqua scura e scintillante, e ho respirato profondamente l’odore d’erba bagnata, cercando di ricordare se anche quel giorno l’avevo fatto.
Ogni volta dovevo aiutarmi con tutti gli altri sensi per riportare alla mente le immagini passate. A furia di ricacciarle indietro ogni volta che facevano capolino nei miei pensieri, queste un giorno avevano definitivamente smesso di venirmi a trovare; e più passava il tempo, più la mia memoria faticava ad accedere ai ricordi nascosti nell’enorme baule impolverato che avevo chiuso a doppia mandata.
Si, anche quel giorno lontano l’odore dell’erba era fortissimo. Aveva piovuto per tutta la notte, e al mattino il fiume era notevolmente ingrossato; scorreva veloce e silenzioso, trascinando con sé la massa di detriti che il temporale aveva sollevato.
Ho alzato lo sguardo sul ponte. Il ponte a Signa non è certo uno dei più belli. È stato distrutto durante la seconda guerra mondiale e in seguito ricostruito, ma rimane comunque piuttosto malconcio e incerto. Non avremmo scommesso nemmeno dieci euro sulla sua stabilità, ma forse è stato proprio questo ad attrarci.
Rispecchiava quel nostro sentirci così precari, perennemente in bilico tra la voglia di lottare e il bisogno di lasciarsi andare, sempre a un passo dal farcela eppure dannatamente attratti dal baratro…era così che mi sentivo in quegli anni.
nostri anni, gli anni post adolescenza, gli anni dell’amore.
È stato in quel momento che l’ho sentita. Una banalissima stretta al cuore, un sottile mancamento che per un attimo mi ha sospeso il respiro. Non ricordavo nemmeno più come fosse. Ho respirato piano, lievemente eccitata, e ho socchiuso gli occhi per concentrarmi meglio.
Per la prima volta sentivo di essere sulla strada giusta.
Mentre l’Arno scorreva imitando il fruscio del vento, incespicando di tanto in tanto in piccoli gorgoglii entusiasti, ho riportato alla mente quei giorni.
Ho ricordato l’odore acre del suo dopobarba, il sapore delle colazioni assonnate al mattino, le urla della professoressa di latino che ci riportava all’ordine, la voce strascicata della guida, il rumore dell’acqua che si infrangeva contro ogni ostacolo incontrato sul suo cammino.
E alla fine sono venute anche le immagini.


Ero all’ultimo anno delle superiori. Dopo infinite discussioni tra professori, rappresentanti di classe e genitori, era stata decisa la meta della tanto sospirata gita di fine anno. In barba alle varie Barcellona, Parigi e Praga, l’aveva spuntata ancora una volta la collaudata Firenze, così noi studenti ci preparavamo alla partenza in un clima di generale insoddisfazione. 
Eccitata oltre ogni dire, indipendentemente dalla meta, io invece non facevo altro che pensare a quando avremmo preso possesso delle cuccette dell’intercity che ci avrebbe condotti a destinazione. Era la prima volta che mi allontanavo da casa, e questo giustificava in parte l’agitazione e la frenesia con cui stavo accogliendo l’evento; tuttavia c’era anche un altro motivo, e si chiamava Davide. 
Alto e bruno, di una bellezza troppo particolare per essere riconosciuta da tutti, Davide frequentava un’altra sezione; le nostre classi si trovavano su pieni diversi e ci si incontrava davvero pochissimo. Era uno dei ragazzi più popolari dell’istituto, ma non per meriti presso la ragazze né tanto meno in quanto studente modello. Che io sapessi i suoi voti non andavano oltre una piena sufficienza – di solito davo sempre più di una sbirciata al suo nome, quando venivano affissi i quadri di fine anno – e non l’avevo mai visto in giro con nessuna ragazza in particolare.
Girava voce che avesse i suoi giri fuori, tra ragazze più grandi, e questo contribuiva ad accrescere il suo fascino presso le adolescenti più timide e romantiche, come me. Non che avessi mai pensato seriamente di poter diventare la sua ragazza. Mi limitavo ad ammirarlo da lontano, provando un’acuta attrazione per i suoi modi rudi e sbrigativi, ai limiti della maleducazione. 
Era famoso per le continue liti coi compagni – non di rado concluse a suon di botte nel cortile della scuola – e per lo strafottente bisogno di starsene quasi sempre per conto proprio. Aveva l’atteggiamento di chi non chiede nulla agli altri, a patto di esser lasciato in pace. Nei professori, come nella maggior parte dei compagni,  suscitava un misto di antipatia e malcelata ammirazione che si tramutava quasi sempre in rispetto. 
Bastava un semplice sguardo di quegli occhi di ghiaccio, così in contrasto con la carnagione leggermente olivastra, per mettere in soggezione qualsiasi interlocutore. Eravamo entrambi rappresentanti di classe e spesso l’avevo visto “in azione”, se così si può dire; durante una riunione alunni-professori era riuscito a ridurre al silenzio perfino Blasetti, il mio temibile professore di chimica, interdetto di fronte a tanta sicurezza e compita arroganza.
Non mi aveva mai degnata di uno sguardo. Durante tutte le assemblee e le varie riunioni a cui avevamo partecipato insieme, era sempre stato come se io fossi trasparente. Non che intervenissi spesso, in verità. Ero molto timida, lo ripeto, e avevo ottenuto l’incarico di rappresentante di classe unicamente perché i miei compagni erano troppo concentrati sulla maturità per volersi occupare di altro. Avevo preso la parola appena un paio di volte – odiandomi fortemente per la voce bassa e tremante e la carnagione così pallida da enfatizzare crudelmente il rossore che mi travolgeva quando ero costretta a parlare in pubblico – e ogni volta lui mi aveva completamente ignorata, scrivendo qualcosa sul suo taccuino o bisbigliando con il compagno di classe, arrivando a sbuffare se l’intervento si protraeva un po’ più del necessario. Credo non si fosse accorto nemmeno della mia esistenza, figuriamoci conoscere il mio nome. 
Le cose cambiarono durante l’ultima riunione del consiglio d’istituto, quella che precedette di poche settimane la partenza per Firenze. Come al solito insegnanti e professori si erano alleati per boicottare la proposta di noi studenti di prolungare la gita, e cercavano di imporre le loro idee mascherando l’autorità con finta benevolenza.
Proprio quella mattina io avevo preso l’ennesimo ingiusto cinque al test di chimica, e mi aveva offesa molto il tono si sufficienza con cui Blasetti aveva liquidato la mia richiesta di spiegazioni. La rabbia e la frustrazione mi avevano resa particolarmente audace, così a un certo punto chiesi la parola e mi alzai, incurante delle venti paia d’occhi puntate su di me. Per la prima volta non mi sentivo affatto a disagio.
“Quello che non capisco” Dissi, scandendo con cura ogni singola parola e alzando la voce per farmi udire da tutti “È perché si continua la farsa di queste assemblee, quando si sa benissimo che voi professori prendete le decisioni che ritenete più opportune ignorando completamente il nostro parere. Pretendete di insegnarci il rispetto delle regole democratiche, ma in questa scuola di democratico c’è ben poco”.
Mentre parlavo osservavo la bocca della mia professoressa d’italiano aprirsi in una “o” sempre più accentuata. Alla fine mi sedetti, soddisfatta e perfettamente consapevole delle conseguenze: quell’attimo di gloria mi costò un netto calo dei voti con cui ebbi accesso alla maturità – Blasetti mi diede addirittura un’insufficienza – ma anche se fossi stata bocciata, ne sarebbe comunque valsa la pena. Quel giorno infatti notai di sfuggita il primo, prolungato e attento sguardo di Davide su di me. Uno sguardo d’ammirazione, per giunta.
Nei giorni che seguirono intercettai spesso i suoi occhi fissi su di me, mentre ciondolavo con le amiche nei corridoi, durante la ricreazione. Una volta addirittura ci scontammo all’entrata. Lui mi lanciò un’occhiata obliqua che mi fece tremare le ginocchia e si scusò con un sorriso; da quel giorno prendemmo a salutarci regolarmente, e sebbene non riuscissi mai ad impedirmi di arrossire, nel suo sguardo non c’era nemmeno una punta di derisione o sarcasmo.
Era questa la situazione quando partimmo per Firenze. Di lì a poco il liceo sarebbe terminato e quasi certamente non l’avrei più visto, pensavo con una stretta al cuore. Volevo solo farmi conoscere. Un tratto di strada insieme andando per musei o una chiacchiera mentre facevamo la fila per salire sul pullman, a questo si era spinta la mia fantasia.
Non avrei mai nemmeno lontanamente ipotizzato quello che effettivamente accadde.
Era la mattina dell’ultimo giorno e il tour de force impostoci dagli organizzatori iniziava a dare i suoi frutti: alcuni di noi si erano procurati acciacchi vari – da un forte raffreddore a una caviglia slogata – mentre altri erano semplicemente troppo stanchi e nauseati per poter reggere una visita all’ennesimo museo. Dopo lunghe insistenze, riuscimmo infine a convincere i professori a lasciarci libera scelta: chi voleva avrebbe potuto rimanere in albergo, a Lastra a Signa, e al massimo uscire per una passeggiata, impegnandosi però a non varcare i confini del paese. 
Entrambe le mie compagne di stanza avevano scelto di tornare a Firenze, così ero rimasta sola nella modesta stanza illuminata dal sole. Mi preparavo a concedermi un lungo sonnellino – di notte non avevo chiuso occhi per via della pioggia e del vento che faceva sbattere i vecchi infissi – quando sentii un leggero bussare alla porta. La spalancai con espressione scocciata, preparata all’ennesimo cambio d’idea di una delle mie compagne, e lo vidi sulla soglia. Mi squadrava con espressione neutra, per nulla imbarazzata, indolentemente appoggiato allo stipite della porta.
“Ti andrebbe di fare un giro? C’è un bel sole, inutile starsene rinchiusi”. Non avevo mai sentito la sua voce così da vicino, né vi avevo mai percepito quella nota gentile, quasi tenera.
“C-certo” Balbettai “Dammi solo il tempo di cambiarmi” 
In quell’istante ricordai che indossavo soltanto il mio infantile pigiama di flanella blu, decorato con stelline rosa semi-fosforescenti. Sarei voluta sprofondare. Di certo dovetti diventare paonazza, perché lui mi rivolse un sorrisetto complice e mi invitò a fare con calma.
L’aria era tornata calda e si respirava l’inconfondibile aroma che anticipa l’arrivo dell’estate. Attraversammo il Ponte a Signa, scherzando sulla sua precarietà e sulla possibilità di trovarci di lì a poco ammollo nell’acqua, e raggiungemmo la sponda sinistra dell’Arno, dove ci stendemmo sull’erba umida, incuranti delle macchie che avrebbe lasciato sui nostri giubboni chiari. Il mio l’ho conservato a lungo. Fino a un paio di anni fa di tanto in tanto ci affondavo il naso dentro e mi sembrava di annusare ancora il miscuglio degli odori di quel giorno, un mix di primavera, erba, acqua dolce, vento e shampoo, qualcosa che non ho mai più sentito nell’aria ma che ricordo alla perfezione. 
Quando si avvicinò per baciarmi, mi sembrò la cosa più naturale del mondo. 
Scivolò silenziosamente sopra di me mentre con le labbra mi esplorava il viso e il collo, insistendo in punti la cui sensibilità mi era stata fino allora sconosciuta. Dischiusi leggermente le labbra per permettergli di infilarci la lingua e mi avvinghiai a lui con straordinaria spontaneità, ogni pensiero spazzato via come nuvola al vento. Facemmo l’amore proprio lì, ridacchiando e nascondendoci sotto gli asciugamani che avevamo portato, mentre l’Arno, complice perfetto, con il suo mormorio copriva i piccoli gemiti di piacere che non riuscivamo a reprimere. Più volte, negli anni a venire, ho pensato che fosse stato il fiume a renderci così sfacciati, così disinibiti. 
Credo di non sbagliarmi nell’affermare che nemmeno Davide avesse preventivato di fare l’amore con me lì, subito, senza nemmeno conoscerci.
Fu una sorta di istigazione della natura a comportarci secondo natura. A seguire il nostro percorso senza preoccuparci delle convenzioni umane. È stata la scelta più avventata della mia vita, e anche l’unica di cui non mi sono mai pentita.
Al nostro ritorno iniziò una grande storia d’amore.

Ancora oggi sono convinta che le decisioni migliori siano quelle prese secondo natura. L’Arno non invertirebbe mai il suo corso, non andrebbe mai a ritroso, concorrente. Stamattina ho pianto a lungo sulle sua sponda, nel punto esatto in cui anni fa ho fatto l’amore per la prima volta. Era questo l’ultimo ricordo da rivivere, il primo.
Quando mi ha lasciata non ho versato una sola lacrima. Non ho mai pensato a quello che eravamo, non ho mai indugiato nei ricordi felici, non mi sono abbandonata al rimpianto e alla nostalgia; ho semplicemente cercato di non pensare. Ho evitato tutti luoghi che mi ricordavano 
lui. Ho cambiato colore di capelli, vestiti, auto, città, facoltà, amici.
Potendo avrei cambiato anche il mio cuore. Mi sono imbottita di calmanti e antidepressivi, ho fatto tanto sesso e conosciuto tanta gente. Ho cercato in ogni modo di cancellare quegli anni, finché un giorno non sono crollata. Mentre fissavo la parete bianca di fronte a me, ho capito che avevo bisogno di ricordare, di rivivere ogni singolo momento e piangerne la fine. Solo così potrò andare avanti.Stamattina, guardando il fiume che scorreva, ho versato tutte le lacrime che non ero riuscita a versare in questi anni, sono riuscita a ricordare il suo volto e il suono dolce che aveva la sua voce quando parlava con me. Voglio andare avanti trasportando con me ogni ricordo, voglio scorrere imparando dal fiume, assecondando ciò che sento e ciò che sono, perché so che non esiste modo migliore di vivere.

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