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domenica 6 febbraio 2011

Il carillon della nonna

Mia nonna aveva un carillon. 
Era un oggetto tutto sommato banale, la cui forma ricordava forse un carretto o una semplice scatoletta, era di metallo dorato e possedeva una levetta per caricarlo a mano. 
Il carillon suonava la musica più triste che io abbia mai sentito. Ti ipnotizzava, ma spezzava il cuore. Da bambina ogni volta che riuscivo a eludere la sorveglianza degli adulti scappavo in camera dei nonni e mi mettevo ad ascoltare il carillon. 
Ricordo che mia zia lo odiava, la irritava profondamente il suono che faceva, e più volte aveva cercato di sbarazzarsene. Non so perché, forse quel carillon era legato a immagini o sentimenti che non le piaceva ricordare. O forse semplicemente non sopportava l'opprimente malinconia in cui io e la nonna sguazzavano a piacimento, socchiudendo gli occhi e concentrandoci sulla musica al punto da escludere la gente attorno. Ma non ci fu mai verso di convincere mia nonna a mettere via il carillon. 
Ripensandoci ora, credo quell'oggetto rispecchiasse la sua essenza come se fosse stato creato apposta, magari da uno stregone che volesse imprigionarne il suo animo in una forma nuova, sorda e lineare come solo gli oggetti sanno essere. Anche mia nonna lo era, a modo suo certo, ottusa e decisa fino alla testardaggine più irritante. 
Per quegli anni che l'ho conosciuta, so per certo che mia nonna era una persona triste. Non depressa, o paranoica, o disperata... triste, solo infinitamente triste.
Una tenue forma di malinconia pulsava in ogni suo gesto, perfino quelli più affettuosi, attraversava i suoi sguardi e conferiva una piega nettamente amara ai lineamenti del viso. Non rideva spesso, e quando lo faceva il suo sguardo sempre lì a ricordarci un'altra realtà. 
Appariva così fragile e indifesa, eppure nemmeno un terremoto era in grado di smuoverla dalle sue posizioni. Il suo modo di essere era morbosamente contagioso. In fondo credo che la sostanziale differenza tra infelicità e felicità sia proprio questa: la prima si trasmette con facilità a chi ci sta accanto, la seconda no. E così stando accanto alla mia amata nonnina percepivo che era triste ma non capivo il perché, cosa che mi faceva sentire estremamente in colpa. In fondo i bambini, nel loro ingenuo e commuovente egocentrismo, sono convinti che tutto ciò che accade sia in qualche modo riconducibile a loro. 
Merito loro o colpa loro, a seconda dei casi. E il senso di colpa è un marchio a vita da cui nessuno è esente, indipendentemente da come se lo sia procurato. Io crescevo e non capivo, ma non smettevo un attimo di sentirmi responsabile. 
Gli psicologi dicono che il senso di colpa derivi dall'inconscia contrapposizione tra amore e odio... ed è vero, mia madre e mia nonna sono state in assoluto le persone che ho più amato e che più amo in vita mia. 
Negli ultimi tempi la penso spesso, ho sempre tenuto il suo ritratto sul comodino e sempre la imploro perché interceda per me con il nostro superiore di lassù.
Alla fine, dopo la sua morte, il trasloco e lo smistamento dei suoi effetti materiali, non so come sono riuscita a recuperare il tanto amato carillon. Fa sempre quella stessa musica, e io provo sempre le stesse sensazioni di allora.
Vien da chiedersi perché, perché ci si ostina a tornare sempre dove fa più male: da un'immagine, una foto, una musica, un ricordo. 
Forse perché la tristezza è così dolce, è uno sciroppo caldo, una coperta di lana e un'abbraccio comprensivo... quando siamo con lei siamo certi che poco o nulla abbiamo da perdere, perché quel che c'era è già irrimediabilmente perso. C'è sempre un masochistico, irresponsabile piacere nell'abbandonare la battaglia e arrendersi alla vita per ciò che è. 

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