C’è una specie di luminosità nel suo sguardo stamattina.
Si vede da come è entrato in ufficio, da come ha centrato l’attaccapanni con la giacca e da come mi ha salutata unendo pollice e indice e alzandoli alla bocca per invitarmi a prendere il caffè.
Mentre lavoriamo, ogni tanto si tocca il gesso e non può fare a meno di sorridere.
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura.
Sto cercando di decifrarne il significato quando Marco se accorge e col braccio buono mi da un piccolo colpetto sulla schiena, poi butta la testa indietro e scoppia in una fragorosa risata. Mi allontano di scatto, colta in fallo, e urtando la scrivania per poco non mando all’aria la pila di pratiche ammonticchiate in un angolo.
Che razza d’impiastro che sono! Sento una vampata di calore salirmi da dentro e incendiarmi il viso, chiazzando di rosso le guance lentigginose. Odio la mia pelle bianca, diafana, quasi trasparente sotto la luce al neon dell’ufficio.
È come una tela immacolata dove di volta in volta le mie emozioni si divertono a dipingersi, infischiandosene del mio imbarazzo. Un libro aperto, mi definisce la gente, e io di solito scrollo le spalle, più che infastidita. Una donna dovrebbe ispirare quantomeno un briciolo di mistero, credo. Una donna dovrebbe essere come le fidanzate che Marco cambia più spesso delle camicie: bella, formosa, abbronzata e intraprendente. In pratica tutto ciò che io non sono.
“Sei una curiosona!” Mi ammonisce lui, bonario, avvicinandosi per mostrarmi il gesso da vicino. Riesco a decifrare le parole “abbi fede” vergate in una calligrafia incerta, piccola e arrotondata.
È talmente vicino che il suo profumo mi stordisce, impedendomi di formulare pensieri sensati. Non un eau de toilette qualunque, ma il suo profumo, quel misto di dopobarba, pelle, sudore e un lieve sentore di tabacco che negli ultimi anni ho associato all’odore che dovrebbe avere la felicità, se esiste.
“Abbi fede” Leggo ad alta voce “Chi te l’ha scritto?
Marco mi fissa con uno sguardo stranamente assorto sotto il ciuffo ribelle che gli ricade sulla fronte. Mi sento smarrita avvolta nella luce verde dei suoi occhi e distolgo lo sguardo, fingendo di sistemare un posacenere sulla scrivania.
“È chiaro come la luce del sole che sei innamorata persa di lui!” Mi ripete spesso Monica, la mia vicina di scrivania nonchè migliore amica fon dai tempi del liceo.
Le sue parole mi vengono in mente sempre nei momenti meno opportuni, ad esempio quando io e Marco abbiamo una riunione di lavoro o siamo in mensa a discutere di politica davanti a un piatto di spaghetti, e arrossisco come una cretina.
Lui però sembra non accorgersi di nulla. Meno male, penso io. Male, dice Monica, malissimo anzi….vuoi forse diventare la sua migliore amica? La collega asessuata a cui rivelare le tresche segrete con le stagiste? No che non voglio diventarlo, ma mi sa che ormai sono sulla buona strada. Quasi fatico a ricordare i nomi di tutte le fidanzate che Marco ha cambiato da quando lavoro qui.
C’era Tiffany, la cubista, quella che gli rigò l’auto nuova quando scoprì degli sms compromettenti sul suo telefonino. Poi Carla, la veterinaria, che non si addormentava senza il suo pastore tedesco accucciato ai piedi. Miriam, l’apprendista stilista, che lo costringeva a indossare inguardabili giacche leopardate, e poi Marina, Alessandra, Roberta e per finire lei, Julia con la J, la prozac-dipendente che dormiva due ore per notte e che durante l’ultima lite gli aveva rotto il braccio.
“La sensitiva qui all’angolo” La voce roca di Marco di insinua nelle mie deprimenti riflessioni “Hai presente la piazzetta dove parcheggio di solito? Be’ di recente ci staziona una vecchia…una specie di chiromante, o una veggente, non so nemmeno io come chiamarla. Legge le carte”.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Una veggente? Che leggeva le carte? Non è che Julia oltre a spezzargli il braccio gli aveva provocato anche un trauma cranico?
“Non guardarmi con quella faccia Laura! “ Borbotta, notando la mia espressione incredula “Mi sono fatto fare le carte, che c’è di male? Lo sai che periodaccio ho dovuto passare di recente, avevo bisogno di una scossa…non so, di una speranza forse”.
“E quindi, l’hai avuta?”
Il suo viso si illumina di un sorriso felice, contagioso, che per un attimo mi ferma il respiro. Accidenti, se è bello…a volte sembra tornare ragazzino, con la sua aria scanzonata e l’entusiasmo dirompente, che non ammette repliche né ostacoli. Adoro stargli accanto, anche se mi riempie di un’assurda tristezza.
Cosa potrei mai offrirgli io, la ragazza grigia e scialba che lavora nel suo stesso ufficio?
“Si. Mi ha assicurato che presto arriverà l’amore, quello vero. E se vuoi saperlo io sono già sicuro da un pezzo dei sentimenti che provo per lei…solo che non so come dirglielo. Magda, si chiama così la veggente, mi ha detto di tornare domani, mi rifarà le carte e saprà dirmi se lei ricambia”
Me ne torno alla mia scrivania e mi metto a rovistare in un cassetto, fingendo di cercare qualcosa. Ecco, ci mancava soltanto Magda la megera.
E chissà chi è quest’altra di cui si è invaghito adesso. Monica me lo dice sempre: “Non fare domande se sai che le risposte potrebbero non piacerti!”. Perché non imparo una volta per tutte a tener chiusa la mia boccaccia? E soprattutto, perché mi ostino a correre dietro a un uomo che nemmeno mi vede?
Mi giro e inaspettatamente me lo trovo davanti, mi ha seguita e i nostri corpi sono ora a pochi centimetri l’uno dall’altro. Prego che il mio cuore la smetta di martellare così forte…vuol forse farsi sentire da tutto l’ufficio?
“Che c’è, ti sembra davvero un’idea così folle?” Mi chiede lui, scostandosi leggermente.
Non so dove guardare, non so cosa rispondergli, vorrei solo fuggire via e non incontrarlo mai più. Alla fine sospiro e opto per la sincerità.
“Be’ si. Se lo vuoi sapere mi sembra un’idea stupida. Folle e stupida.”
Mi scruta a lungo, davvero non saprei dire cosa gli passa per la testa, poi scrolla appena le spalle e se ne torna al suo ufficio.
Quando è sulla porta si volta e mi lancia un mezzo sorriso sornione, che gli fa comparire due fossette sulle guance.
“Ma l’amore è folle…ed anche stupido a volte. Non credi?”
Non aspetta la mia risposta e va via, lasciandomi a bocca aperta, incerta se ridere o piangere.
Il giorno dopo mi sveglio prima del solito ed esco di casa senza nemmeno aver fatto colazione. Mangerò un cornetto in qualche bar o rimarrò digiuna fino al pranzo, non m’importa granché, il mio nervosismo mi riempie la pancia di tante bolle d’aria e non c’è spazio per nient’altro. Mi avvio a passo di marcia verso la piazzetta che si trova dietro l’ufficio per cui lavoro. Non ci passo mai, casa mia si trova dalla parte opposta, ma quella situazione straordinaria merita misure d’emergenza.
Magda è già lì, seduta su una panchina di pietra, e dinanzi a sé ha un tavolino di legno traballate con su un mazzo di carte e una candela spenta, mezza consumata. È una vecchia minuscola, curva e raggrinzita, che indossa un logoro scialle di lana e beve qualcosa da un vecchio termos.
Per un attimo penso che Marco mi abbia fatto uno scherzo, non può davvero aver messo la sua vita nelle mani di una nonnetta e del suo mazzo di tarocchi! Sono a pochi metri da lei, ormai decisa ad andar via, quando la donna si volta nella mia direzione e mi guarda. I suoi occhi sono chiarissimi, celeste ghiaccio, e riescono a tenere incatenati i miei più a lungo di quanto non voglia, finché non mi sento quasi in dovere di andarle incontro, di avvicinarmi a quel ridicolo banchetto che sembra fuori posto nel caos della città.
“Ti aspettavo” Mi dice quando le sono di fronte.
La voce è assolutamente neutra, né ostile né gentile, ma alle sue parole sento l’irritazione montarmi dentro.
“Non so chi crede che io sia, e nemmeno m’importa” Dico “So solo che è vergognoso giocare in questo modo coi sentimenti della gente”
“Sono d’accordo” Annuisce lei, con un sorriso sdentato che mio malgrado mi fa sobbalzare.
Mi guardo attorno smarrita, non voglio che qualcuno che conosco passi e mi veda lì; che ci sono venuta a fare? E soprattutto, cosa speravo di ottenere? Mi mette a disagio quella vecchia, il compiacimento con cui mi fissa, quasi fossi un delizioso bocconcino.
“Io non prendo in giro nessuno, signorina. Presto lo capirai anche tu” Mi dice gentilmente, mescolando le carte.
In quel momento mi accorgo che dietro di me c’è un signore in attesa del suo turno. Ho la netta percezione che il mio tempo è scaduto, così giro i tacchi e mi dirigo a passo veloce verso l’ufficio.
Quel giorno Marco non si fa vedere.
Alle otto di sera – l’ufficio è vuoto, le scrivanie abbandonate nel disordine e il telefono finalmente muto – mi metto a fissare il buio oltre la finestra, massaggiandomi le tempie per illudermi di alleviare il mal di testa.
Sento che sto per piangere. Che starà facendo ora, lui? Avrà già trovato la sua anima gemella? Staranno insieme? Ora si che le lacrime scendono copiose a bagnarmi le guance e i fogli sulla scrivania. Devo andarmene da lì, non c’è altra soluzione, non posso lavorarci fianco a fianco ogni giorno, sento che dopo ieri non potrei sopportarlo un minuto di più.Sento la porta aprirsi e mi sforzo di asciugarmi alla meglio le lacrime con le mani. Sicuramente qualche collega ha dimenticato qualcosa e non voglio essere colta in quello stato da nessuno, nemmeno da Monica.Mi ricompongo e mi giro, un finto sorriso di circostanza stampato sulle labbra, il saluto che mi muore in gola quando vedo Marco. È fermo sulla soglia, un mazzo di rose nel braccio buono, e mi guarda col sorriso più dolce del mondo.“Magda ti saluta. Dice che tu lo sai….e che ricambi” Spalanca le braccia e le rose gli cadono a terra, mentre io corro a rannicchiarmi contro il suo petto, inzuppandogli di lacrime la camicia.
Mi avvicino e fingo di leggere il comunicato che ha davanti: una piccola scritta storta spicca sulla piega bianca dell’ingessatura.
Sto cercando di decifrarne il significato quando Marco se accorge e col braccio buono mi da un piccolo colpetto sulla schiena, poi butta la testa indietro e scoppia in una fragorosa risata. Mi allontano di scatto, colta in fallo, e urtando la scrivania per poco non mando all’aria la pila di pratiche ammonticchiate in un angolo.
Che razza d’impiastro che sono! Sento una vampata di calore salirmi da dentro e incendiarmi il viso, chiazzando di rosso le guance lentigginose. Odio la mia pelle bianca, diafana, quasi trasparente sotto la luce al neon dell’ufficio.
È come una tela immacolata dove di volta in volta le mie emozioni si divertono a dipingersi, infischiandosene del mio imbarazzo. Un libro aperto, mi definisce la gente, e io di solito scrollo le spalle, più che infastidita. Una donna dovrebbe ispirare quantomeno un briciolo di mistero, credo. Una donna dovrebbe essere come le fidanzate che Marco cambia più spesso delle camicie: bella, formosa, abbronzata e intraprendente. In pratica tutto ciò che io non sono.
“Sei una curiosona!” Mi ammonisce lui, bonario, avvicinandosi per mostrarmi il gesso da vicino. Riesco a decifrare le parole “abbi fede” vergate in una calligrafia incerta, piccola e arrotondata.
È talmente vicino che il suo profumo mi stordisce, impedendomi di formulare pensieri sensati. Non un eau de toilette qualunque, ma il suo profumo, quel misto di dopobarba, pelle, sudore e un lieve sentore di tabacco che negli ultimi anni ho associato all’odore che dovrebbe avere la felicità, se esiste.
“Abbi fede” Leggo ad alta voce “Chi te l’ha scritto?
Marco mi fissa con uno sguardo stranamente assorto sotto il ciuffo ribelle che gli ricade sulla fronte. Mi sento smarrita avvolta nella luce verde dei suoi occhi e distolgo lo sguardo, fingendo di sistemare un posacenere sulla scrivania.
“È chiaro come la luce del sole che sei innamorata persa di lui!” Mi ripete spesso Monica, la mia vicina di scrivania nonchè migliore amica fon dai tempi del liceo.
Le sue parole mi vengono in mente sempre nei momenti meno opportuni, ad esempio quando io e Marco abbiamo una riunione di lavoro o siamo in mensa a discutere di politica davanti a un piatto di spaghetti, e arrossisco come una cretina.
Lui però sembra non accorgersi di nulla. Meno male, penso io. Male, dice Monica, malissimo anzi….vuoi forse diventare la sua migliore amica? La collega asessuata a cui rivelare le tresche segrete con le stagiste? No che non voglio diventarlo, ma mi sa che ormai sono sulla buona strada. Quasi fatico a ricordare i nomi di tutte le fidanzate che Marco ha cambiato da quando lavoro qui.
C’era Tiffany, la cubista, quella che gli rigò l’auto nuova quando scoprì degli sms compromettenti sul suo telefonino. Poi Carla, la veterinaria, che non si addormentava senza il suo pastore tedesco accucciato ai piedi. Miriam, l’apprendista stilista, che lo costringeva a indossare inguardabili giacche leopardate, e poi Marina, Alessandra, Roberta e per finire lei, Julia con la J, la prozac-dipendente che dormiva due ore per notte e che durante l’ultima lite gli aveva rotto il braccio.
“La sensitiva qui all’angolo” La voce roca di Marco di insinua nelle mie deprimenti riflessioni “Hai presente la piazzetta dove parcheggio di solito? Be’ di recente ci staziona una vecchia…una specie di chiromante, o una veggente, non so nemmeno io come chiamarla. Legge le carte”.
Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Una veggente? Che leggeva le carte? Non è che Julia oltre a spezzargli il braccio gli aveva provocato anche un trauma cranico?
“Non guardarmi con quella faccia Laura! “ Borbotta, notando la mia espressione incredula “Mi sono fatto fare le carte, che c’è di male? Lo sai che periodaccio ho dovuto passare di recente, avevo bisogno di una scossa…non so, di una speranza forse”.
“E quindi, l’hai avuta?”
Il suo viso si illumina di un sorriso felice, contagioso, che per un attimo mi ferma il respiro. Accidenti, se è bello…a volte sembra tornare ragazzino, con la sua aria scanzonata e l’entusiasmo dirompente, che non ammette repliche né ostacoli. Adoro stargli accanto, anche se mi riempie di un’assurda tristezza.
Cosa potrei mai offrirgli io, la ragazza grigia e scialba che lavora nel suo stesso ufficio?
“Si. Mi ha assicurato che presto arriverà l’amore, quello vero. E se vuoi saperlo io sono già sicuro da un pezzo dei sentimenti che provo per lei…solo che non so come dirglielo. Magda, si chiama così la veggente, mi ha detto di tornare domani, mi rifarà le carte e saprà dirmi se lei ricambia”
Me ne torno alla mia scrivania e mi metto a rovistare in un cassetto, fingendo di cercare qualcosa. Ecco, ci mancava soltanto Magda la megera.
E chissà chi è quest’altra di cui si è invaghito adesso. Monica me lo dice sempre: “Non fare domande se sai che le risposte potrebbero non piacerti!”. Perché non imparo una volta per tutte a tener chiusa la mia boccaccia? E soprattutto, perché mi ostino a correre dietro a un uomo che nemmeno mi vede?
Mi giro e inaspettatamente me lo trovo davanti, mi ha seguita e i nostri corpi sono ora a pochi centimetri l’uno dall’altro. Prego che il mio cuore la smetta di martellare così forte…vuol forse farsi sentire da tutto l’ufficio?
“Che c’è, ti sembra davvero un’idea così folle?” Mi chiede lui, scostandosi leggermente.
Non so dove guardare, non so cosa rispondergli, vorrei solo fuggire via e non incontrarlo mai più. Alla fine sospiro e opto per la sincerità.
“Be’ si. Se lo vuoi sapere mi sembra un’idea stupida. Folle e stupida.”
Mi scruta a lungo, davvero non saprei dire cosa gli passa per la testa, poi scrolla appena le spalle e se ne torna al suo ufficio.
Quando è sulla porta si volta e mi lancia un mezzo sorriso sornione, che gli fa comparire due fossette sulle guance.
“Ma l’amore è folle…ed anche stupido a volte. Non credi?”
Non aspetta la mia risposta e va via, lasciandomi a bocca aperta, incerta se ridere o piangere.
Il giorno dopo mi sveglio prima del solito ed esco di casa senza nemmeno aver fatto colazione. Mangerò un cornetto in qualche bar o rimarrò digiuna fino al pranzo, non m’importa granché, il mio nervosismo mi riempie la pancia di tante bolle d’aria e non c’è spazio per nient’altro. Mi avvio a passo di marcia verso la piazzetta che si trova dietro l’ufficio per cui lavoro. Non ci passo mai, casa mia si trova dalla parte opposta, ma quella situazione straordinaria merita misure d’emergenza.
Magda è già lì, seduta su una panchina di pietra, e dinanzi a sé ha un tavolino di legno traballate con su un mazzo di carte e una candela spenta, mezza consumata. È una vecchia minuscola, curva e raggrinzita, che indossa un logoro scialle di lana e beve qualcosa da un vecchio termos.
Per un attimo penso che Marco mi abbia fatto uno scherzo, non può davvero aver messo la sua vita nelle mani di una nonnetta e del suo mazzo di tarocchi! Sono a pochi metri da lei, ormai decisa ad andar via, quando la donna si volta nella mia direzione e mi guarda. I suoi occhi sono chiarissimi, celeste ghiaccio, e riescono a tenere incatenati i miei più a lungo di quanto non voglia, finché non mi sento quasi in dovere di andarle incontro, di avvicinarmi a quel ridicolo banchetto che sembra fuori posto nel caos della città.
“Ti aspettavo” Mi dice quando le sono di fronte.
La voce è assolutamente neutra, né ostile né gentile, ma alle sue parole sento l’irritazione montarmi dentro.
“Non so chi crede che io sia, e nemmeno m’importa” Dico “So solo che è vergognoso giocare in questo modo coi sentimenti della gente”
“Sono d’accordo” Annuisce lei, con un sorriso sdentato che mio malgrado mi fa sobbalzare.
Mi guardo attorno smarrita, non voglio che qualcuno che conosco passi e mi veda lì; che ci sono venuta a fare? E soprattutto, cosa speravo di ottenere? Mi mette a disagio quella vecchia, il compiacimento con cui mi fissa, quasi fossi un delizioso bocconcino.
“Io non prendo in giro nessuno, signorina. Presto lo capirai anche tu” Mi dice gentilmente, mescolando le carte.
In quel momento mi accorgo che dietro di me c’è un signore in attesa del suo turno. Ho la netta percezione che il mio tempo è scaduto, così giro i tacchi e mi dirigo a passo veloce verso l’ufficio.
Quel giorno Marco non si fa vedere.
Alle otto di sera – l’ufficio è vuoto, le scrivanie abbandonate nel disordine e il telefono finalmente muto – mi metto a fissare il buio oltre la finestra, massaggiandomi le tempie per illudermi di alleviare il mal di testa.
Sento che sto per piangere. Che starà facendo ora, lui? Avrà già trovato la sua anima gemella? Staranno insieme? Ora si che le lacrime scendono copiose a bagnarmi le guance e i fogli sulla scrivania. Devo andarmene da lì, non c’è altra soluzione, non posso lavorarci fianco a fianco ogni giorno, sento che dopo ieri non potrei sopportarlo un minuto di più.Sento la porta aprirsi e mi sforzo di asciugarmi alla meglio le lacrime con le mani. Sicuramente qualche collega ha dimenticato qualcosa e non voglio essere colta in quello stato da nessuno, nemmeno da Monica.Mi ricompongo e mi giro, un finto sorriso di circostanza stampato sulle labbra, il saluto che mi muore in gola quando vedo Marco. È fermo sulla soglia, un mazzo di rose nel braccio buono, e mi guarda col sorriso più dolce del mondo.“Magda ti saluta. Dice che tu lo sai….e che ricambi” Spalanca le braccia e le rose gli cadono a terra, mentre io corro a rannicchiarmi contro il suo petto, inzuppandogli di lacrime la camicia.
"...e un lieve sentore di tabacco che negli ultimi anni ho associato all’odore che dovrebbe avere la felicità, se esiste."
RispondiEliminaBella questa frase, davvero...praticamente hai descritto la stessa cosa che sento io quanto entro nello studio dal mio caro psichiatra...(e che in qualche post dovrei anche aver descritto).