Da
ore la spia della benzina gli indicava che era in riserva.
Non
aveva previsto di fermarsi, ma ormai non gli restava altra scelta. Le catene si
erano rivelate utili lungo le strade che si arrampicavano sulla montagna
ammantata di neve fresca, friabile come polistirolo, ma ormai era notte, l’asfalto
stava rapidamente ghiacciando e il rischio di rimanere in panne era più di
quello che era disposto ad affrontare per raggiungere la baita.
Sarebbe
arrivato in ritardo al week-end organizzato dai suoi colleghi, ma non
importava. Non se avesse trovato il modo di passare la notte al caldo,
ripartendo al mattino, con la mente fresca e il volto sbarbato.
Da
quelle parti un tempo c’era una pensione, qualcosa di vagamente simile a un
motel per turisti demoralizzati e dispersi.
Uno stabile alto e lungo arroccato
sul ciglio della strada, le camere sul retro affacciate sul burrone. Piuttosto
lugubre e caratteristico.
Vi
aveva soggiornato con Lisa, ai tempi in cui la loro storia aveva ancora qualche
speranza di funzionare.
Come richiamato dal suo pensiero, superata l’ennesima
curva l’edificio gli si parò davanti all’improvviso, senza dargli il tempo di
accostare. Fece retromarcia e sistemò l’auto in una minuscola radura a bordo
strada. Sbuffò diverse volte, esalando nuvolette di vapore caldo, mentre
prelevava il borsone di viaggio e raggiungeva a lunghe falcate il portone d’ingresso.
Accolto da un silenzio greve e pesante come ghiaccio, il rumore del cofano che
sbatteva era risuonato come una detonazione, facendolo sobbalzare.
Da
una decina di minuti aveva ripreso a nevicare.
Quando
suonò la campanella della reception, il suo giaccone era coperto da fiocchi
bianchi tutt’altro che intenzionati a sciogliersi. Si chiese con una certa
inquietudine se lì avessero il riscaldamento funzionante. Entrando non aveva
avvertito alcuno sbalzo termico, nemmeno un flebile tepore; nella hall si
gelava esattamente come fuori. Si guardò intorno, a disagio.
Aveva
ricordi molto vaghi di quel luogo – quei pochi si confondevano con le immagini
di lui e Lisa che si rotolavano sul materasso cigolante –, ma certo la volta
precedente non gli era sembrato così spoglio e desolato. La luce smorta dei
neon illuminava mobili vecchi e spartani, coperti da strati di polvere spessi
come tappeti.
L’aria era consumata, come se nessuno aprisse le finestre da
giorni, forse mesi. Uno sgradevole odore di muffa, come se qualcosa marcisse in
antri invisibili, lo costringeva a trattenere il respiro.
Alla
reception non si vedeva nessuno, e iniziava a sentirsi a disagio.
Suonò
di nuovo, premendo il dito qualche secondo in più del necessario.
–
Desidera? – bisbigliò una voce alle sue spalle.
Sobbalzò
dallo spavento.
Si girò lentamente, sforzandosi di nascondere il disappunto,
per vedere a chi apparteneva quella voce femminile che infrangeva il silenzio
come una lama graffierebbe il vetro.
Il secondo sobbalzo lo ebbe quando i suoi
occhi si posarono su di lei.
Era
la donna più bella che avesse mai visto.
Non tanto per il corpo snello, i
capelli lunghissimi o la scollatura profonda che esibiva. Era il volto a
catturare la sua attenzione. Occhi magnetici, profondi come pozzi, regalavano
all’ovale un’arroganza pienamente giustificata. Le bastò fissarla qualche
secondo per avere l’assurda sensazione che quel volto fosse l’unica, magnifica
pennellata di colore in un mondo che all’improvviso si era fatto nero, come se
tutto il resto avesse smesso di esistere.
–
Allora? –
Sbatté
le palpebre e fu colto da una lieve vertigine.
Il mondo riacquistò i suoi
colori e la hall la sua polvere, il sentore rancido era più forte che mai.
–
Una stanza… Cerco una stanza per la notte. –
Si
trovò a seguire la sconosciuta su per scale ripide, respirando quell’insopportabile
odore di stantio.
Anche le scale sembravano impolverate.
Nel porgergli le
chiavi, le labbra della donna si arcuarono in un sorriso terribilmente
sensuale. Suo malgrado, sentì il bisogno di cercare i suoi occhi e indugiare più
a lungo di quanto avrebbe voluto nelle due pozze color fango, che sembravano
allargarsi ogni secondo che passava, risucchiando ogni cosa.
Pur
nella sua abbagliante simmetria, il volto di quella donna senza età – poteva
avere vent’anni o quaranta, non era in grado di stabilirlo – presentava
qualcosa di stonato.
Colpa
forse degli occhi troppo grandi, simili a quelli delle donne degli hentai che
amava tanto, o delle labbra sproporzionatamente carnose rispetto al nasino
francese all’insù, un puntino nel mare lattiginoso della sua pelle. Quella
strana donna corrispondeva perfettamente ai suoi canoni, del tutto
irrealistici, di bellezza femminile.
Quella
notte si rigirò a lungo tra le coperte, inquieto e ansioso.
Eppure
non aveva alcun motivo per sentirsi così.
Gli venne da pensare che se un rumore
insistente, in determinate condizioni d’animo, poteva far impazzire un uomo,
altrettanto poteva fare il silenzio più assoluto. Quando sentì stridere i vetri
della finestra, perciò, per prima cosa si sentì sollevato.
Un rumore sordo e metallico
che aumentava d’intensità, provocandogli una curiosa sensazione di pelle d’oca.
Gli ricordava quello delle foglie mosse dal vento che graffiano i vetri… No,
piuttosto un ramo, spezzato dal carico di neve.
O
forse semplicemente un sogno. Non aveva ordinato alle sue gambe di muoversi, ma
queste avevano già scostato il piumone e di lì a poco aveva sentito il
pavimento gelido sotto i piedi.
Uno,
due, tre passi in direzione della finestra.
Le
spesse tende lasciavano trasparire il bagliore accecante della neve, appena
offuscato da una sagoma oscura.
Le aprì e se la trovò davanti. Le labbra
sorridevano, negli occhi si agitavano piccoli vortici che gli davano le
vertigini.
Volteggiava nell’aria immobile, e il tanfo rancido emanato dalle
vesti presto divenne un profumo seducente.
–
Posso entrare? – chiese con voce melodiosa, come se stesse cantando.
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