Famosissima
nei primi decenni del Novecento, dopo il secondo conflitto mondiale Irène Némirovsky
fu completamente dimenticata sia dalla Francia – nazione in un cui trascorse
gran parte della sua esistenza, che l’aveva celebrata come la sua più grande
scrittrice – che dal resto del mondo. Una Francia crudele, che non mostrò
alcuna solidarietà per il suo destino di deportata (la Némirovsky, infatti, morì
di tifo ad Auschwitz) né per quello di tanti altri ebrei francesi, e che dopo
la guerra rimosse ogni ricordo assieme all’insostenibile orrore della guerra.
Nata
a Kiev nel 1903 in una famiglia appartenente all’alta borghesia finanziaria
(suo padre era un banchiere ebreo), durante l’infanzia Irène riceve un’educazione
classica e pochissimo affetto sia da parte della madre – quella Fanny Némirovsky
bella e egocentrica, dedita esclusivamente ai divertimenti mondani e agli
amanti, che tornerà spessissimo nella produzione letteraria della scrittrice –
che da parte del padre, completamente preso dai suoi affari e succube del gioco
d’azzardo. Dopo la rivoluzione bolscevica, la famiglia Nemirovsky, appartenente
alla classe agiata dei “russi bianchi”, affaristi e anticomunisti, per sfuggire
alle persecuzioni è costretta a lasciare la Russia, rifugiandosi prima in
Finlandia poi in Svezia.
La
piccola Irène cresce quindi in esilio, approdando definitivamente in Francia, a
Parigi, ormai adolescente. Si laurea con lode alla Sorbona e frequenta
assiduamente la classe intellettuale del suo tempo, partecipando a convegni
culturali, feste e balli eleganti.
Il
suo talento letterario viene presto notato: nel 1929, infatti, viene pubblicato
il suo primo romanzo, Daniel Golder, la storia dell’ascesa e caduta del
finanziere ebreo Golder, che la Némirovsky inviò all’editore firmandosi con uno
pseudonimo maschile, e che vendette ben sessantamila copie.
Nel
1933 pubblica Les mouches d’automn, nel 1935 Le vin de solitude, nel 1936 Jézabel,
nel 1938 La proie, nel 1939 Deux e nel 1940 – appena due anni prima del suo
arresto e della deportazione – Les chiens et le loups. Scrittrice
particolarmente feconda, apprezzata sia dal grande pubblico che dalla critica,
vide la sua carriera subire una brusca decelerata a causa della guerra e della
promulgazione delle leggi antisemite.
Non
potendo più pubblicare con la sua firma né collaborare con giornali e
periodici, per un certo periodo Irène scrisse sotto pseudonimo, pubblicando i
suoi racconti anche per il giornale antisemita Gringoire. È questo uno dei
motivi per cui, nonostante le sue origini, in seguito sarà accusata di antisemitismo:
“l’ebrea antisemita”, verrà infatti soprannominata nel 2008 da alcuni critici
americani. L’accusa si fonda prevalentemente sulla sua produzione letteraria,
su quei romanzi costellati da figure di ebrei al limite della caricatura, quasi
delle macchiette, ricettacolo di tutti i luoghi comuni usati dalla propaganda
antisemita. Tuttavia, leggendo tra le righe, appare evidente che Irène Némirovsky
non odia affatto il suo popolo: è una scrittrice, e come tale considera
criticamente la realtà che la circonda; ama la sua gente, ma non può fare a
meno di sottolinearne con ironia le contraddizioni, le meschinità più o meno
giustificabili e il carico di orrore che la guerra riversa sugli uomini,
mettendo il luce i loro lati più meschini.
Tra
il 1941 e il 1942, reclusa col marito nella loro casa di campagna, Irène scrive
Tempête en Juine Dolce, rispettivamente la prima e la seconda parte del
progetto Suite française, che vorrebbe pubblicare al termine della guerra, pur
rendendosi presto conto che la sua resterà solo una speranza: verrà infatti
arrestata dalla gendarmeria francese e deportata in Germania.
Il
suo oblio è durato quasi sessant’anni, in cui la Nemirovsky scomparve dal
panorama editoriale e letterario; fino a quando, nei primi anni Novanta del
secolo scorso, l’editore Grasset ristampò le sue opere. Contemporaneamente,
anche in Italia accadeva la stessa cosa: in un primo tempo con Feltrinelli, che
nel 1989 pubblicò “Il ballo” e nel 1992 “David Golder”.
Ma
sarà Adelphi, l’editore italiano di Iréne Némirovsky, a pubblicare l’intera
produzione di una scrittrice unica nel suo genere, che seppe parlare della vita
e della guerra con straordinario acume e ironia, che seppe indagare le infinite
passioni dell’animo umano e trasmetterle al lettore senza filtri né ipocrisie,
con la leggerezza propria di chi guarda oltre l’apparenza, accettando l’essere
umano per quello che è: né buono né cattivo, semplicemente “umano”, mutevole e
complesso.
Oggi
Suite francese è probabilmente il romanzo più famoso della Némirovsky,
vincitrice del prestigioso “Prix Renaudot”, esploso ovunque come un caso
letterario e tradotto in oltre trenta paesi. Romanzo corale e realistico, che
si ispira apertamente ai grandi romanzieri della letteratura ottocentesca
(Balzac, Dickens e sopratutto Tolstoj, il vero modello), Suite francese fu
scritto quasi contemporaneamente agli avvenimenti che narra, i primi
bombardamenti su Parigi e l’arrivo dei tedeschi nel giugno del 1940.
Si
tratta di un’opera incompleta, poiché la struttura originaria prevedeva cinque
parti di uguale tonalità – da qui il titolo di “suite” – ma la scrittrice
riuscirà a terminare soltanto le prime due parti, Tempesta di giugno e Dolce.
Tempesta
di giugno narra con ironia e ricchezza di particolari l’esodo dei parigini,
spaventati della veloce avanzata tedesca, verso la campagna e la provincia.
Parigi ci appare come una città post-apocalittica, quasi asettica per via dell’ordine
che regna nelle case abbandonate, dove ogni cosa è impacchettata e ricoperta da
teli che sembrano voler congelare simbolicamente un presente destinato a non
tornare così presto. La gente scappa dalla guerra, ma ancora non capisce bene
cosa sia, questa guerra: ognuno conserva le proprie abitudini, i vizi e perfino
i vezzi di classe, fino al tragico momento in cui si renderà conto che di
fronte all’orrore della guerra, gli uomini sono tutti uguali.
Dolce,
ambientato a Bussy, piccolo villaggio rurale occupato dai nazisti, narra con
straordinaria autenticità la convivenza forzata tra vincitori e vinti e il
tenero sentimento nato tra una giovane infelice, moglie di un prigioniero al
fronte, e l’ufficiale tedesco che alloggia in casa sua.
A
tenere insieme questa galleria di personaggi strambi è la Storia, rappresentata
come una sorta di potenza unificatrice, livellatrice di un’umanità varia e
sfaccettata.
Leggendo
le opere di Irène Némirovsky quello che colpisce è l’approfondimento emotivo e
psicologico, mai banale, di quell’umanità che la scrittrice sembra conoscere
così bene, e di quei meccanismi – familiari, sociali, affettivi – di cui la sua
scrittura acuta e ironica sembra svelare trame e segreti. È questa la magia
anche dell’ultimo edito in casa Adelphi, Il vino della solitudine, opera
profondamente autobiografica.
Questa
volta al centro dell’attenzione della scrittrice c’è il rapporto che lega ogni
donna-bambina a sua madre, rapporto complesso e pieno di contraddizioni specie
per chi – come Irène e come la piccola Hélène, protagonista del libro – è stato
poco amato.
“Da
un’infanzia infelice non si guarisce mai”, era solita dire la scrittrice, e
questo romanzo spiega bene il perché. È difficilissimo non immedesimarsi nelle
vicende dei protagonisti, quasi impossibile restare lettori indifferenti
dinanzi alle vicende narrate da una scrittrice che, dopo un lunghissimo oblio, è
tornata famosa quasi per uno scherzo del destino.
Una
scrittrice che oltre a scrivere divinamente è in grado di far vivere i suoi
personaggi e rivivere un’epoca, gli anni Trenta del secolo scorso,
indimenticabile e terribile.
post davvero interessante, non avevo mai approfondito la storia di Irene Némirovsky ma mi hai dato lo spunto per farlo in futuro! :)
RispondiEliminaGrazie Greta :-).... sì, ha una storia molto particolare!
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