Seppe
di aver toccato il fondale ancor prima che la sabbia si insinuasse tra le
lische della coda. Annaspò
alla ricerca d’acqua, mentre l’aria limpida e fredda le graffiava la gola. Era
solo questione di tempo prima che il suo corpo si abituasse all’aria e le
branchie si schiudessero per permettere ai polmoni di funzionare correttamente.
Un processo doloroso, ma inevitabile. Guardò
dietro di sé sua sorella Ananke che volteggiava ignara del pericolo.
Avrebbe
voluto urlarle di allontanarsi più in fretta che poteva, di tornare al largo,
dove l’oceano scavava profondità inaccessibili alle creature della terra, ma
non ne ebbe il tempo. Un laccio di ferro le si conficcò nel derma coperto di
lische, intaccando la struttura interna della coda. Urlò
di dolore, piegandosi in due nella trappola trasparente e letale. Qualche
metro più in là, Ananke si dibatteva disperatamente in un’altra rete. Un’acuta
stilettata di colpa le trafisse il cuore. Avevano sbagliato ad avvicinarsi alla
costa… lei, che era la maggiore, avrebbe dovuto tenere a freno l’imprudenza di
Ananke. All’improvviso
sentì le loro grida. Uomini, tanti uomini.
Come tutte le creature del mare,
Surya conosceva la loro lingua, sapeva che quei versi disarticolati indicavano
soddisfazione, vittoria.
Si
guardò intorno, terrorizzata. Solo allora si accorse che quel tratto di mare
era interamente ricoperto di reti invisibili, messe lì apposta per loro…
Amerigo
era solo nel salone delle feste. Aveva mandato via i servitori e gli uomini
incaricati di tinteggiare le pareti per la cerimonia d’investitura del nuovo
sovrano, che si sarebbe tenuta di lì a qualche giorno, al ritorno di Rolando.
Le labbra dell’uomo si incresparono in una smorfia. Rolando, l’erede al trono che suo padre aveva indicato come
successore sul letto di morte. Scavalcando ogni buonsenso e ogni tradizione, il
vecchio aveva scelto il figlio minore, che a sedici anni si era arruolato
nell’esercito per tornare in patria solo una volta l’anno.
Un
soldato su trono di Cornovia, il più esteso e prospero di Occidente!
La
smorfia di Amerigo si appianò nella maschera di gelo che indossava quando era
infuriato. Le
spie che aveva messo sulle tracce di suo fratello gli avevano riferito che
sarebbe sbarcato in patria il ventidue giugno. I suoi uomini migliori
l’avrebbero atteso lì, schierati in forze e armati fino i denti. Rolando non
avrebbe mai immaginato quale calorosa accoglienza lo aspettava nella sua terra
natale, dove credeva di mettere piede come futuro sovrano. Le labbra sottili
dell’uomo si arcuarono in un sorriso che ricordava quello di un pescecane.
In
quel momento entrò un servitore, un ragazzino alto e magro, piuttosto scialbo.
Quando
due soldati entrarono tenendola per le braccia, uno a destra l’altro a
sinistra, Amerigo fece qualche passo in avanti per vederla meglio. Gli uomini
avanzavano piano, facendo ticchettare ritmicamente gli stivali sul marmo
lucido, mentre il sacco informe che trascinavano, una specie di bozzolo avvolto
in un telo di iuta, assumeva via via le sembianze di una donna.
Una
donna dal volto bellissimo. Aveva già visto l’altra sirena: era più piccola di
questa, poco più che una bambina. Farla parlare era stato facile. Aveva detto
di chiamarsi Ananka, e sempre da lei avevano appreso che l’altra, quella che
ora lo fissava dritto negli occhi con uno sguardo di sfida, era sua sorella
Surya. Nessuno osava incrociare apertamente lo sguardo di Amerigo, né i suoi
consiglieri, né i soldati della guardia. Eppure lo sguardo ardito che gli
lanciava quella ragazza, lungi dall’irritarlo, gli procurava un curioso
rimescolio nello stomaco. Forse…
«Lasciatela»
ordinò ai soldati. Quelli non se lo fecero ripetere due volte: mollarono la
presa, e la sirena finì miseramente a terra. Se si aspettava di sentirla
lamentarsi per il dolore, Amerigo fu deluso. Lei non emise un sibilo,
limitandosi ad alzare il volto per tornare a guardarlo.
Nei
suoi occhi neri, ora così vicini, si leggeva chiaramente tutta la rabbia, l’impotenza
che doveva provare. Enormi e sproporzionatamente grandi su quel volto minuto,
quegli occhi lo accusavano apertamente, silenziosi e immobili come laghi di
petrolio. Sembrava un animaletto in gabbia. Inoffensivo, ridicolmente fiero.
Amerigo ricambiò lo sguardo con un sorriso condiscendente.
Un
nuovo piano stava prendendo forma nella sua mente.
«Spogliatela»
ordinò, senza staccarle lo sguardo di dosso.
I
soldati la strattonarono brutalmente per srotolare il telo ruvido che la
ricopriva.
Amerigo
non riuscì a trattenere un fischio di ammirazione mentre istintivamente si
portava una mano al volto, per riparare gli occhi da quel luccichio così simile
ai raggi del sole.
Non
aveva mai visto una sirena dal vivo, ma aveva ascoltato attentamente i racconti
dei pescatori che si erano imbattuti in una di quelle creature metà uomo metà
pesce. Ma nulla di quello che aveva sentito l’aveva preparato a ciò che si
trovava sotto i suoi occhi.
A
sessant’anni suonati, per la prima volta si sentiva come un bambino di fronte a
qualcosa che nessuno gli aveva mai mostrato. Ai suoi piedi, la coda luccicante
della sirena si dibatteva freneticamente scivolando sul marmo, quasi fosse
dotata di vita propria. Rimase incantato a guardarla. Era verde, un verde
intenso e sconosciuto all’universo terrestre, che virava verso l’oro, spandendo
intorno a sé stilettate di luce ambrata, fredda come pietra grezza. Il suo
sguardo non poté fissarla per più di qualche secondo, gli dolevano gli occhi.
A
un suo cenno, uno dei soldati si affrettò a coprire la coda con la iuta.
«I
pescatori hanno detto che col passare dei giorni sarà sempre meno luminosa,
come un fuoco che smette di ardere» gli spiegò.
Gli
occhi di Amerigo tornarono a posarsi sulla sirena, questa volta per ammirare le
sue meravigliose forme umane. Il suo sguardo insistente si spostò dal ventre
piatto, perfettamente disegnato, ai seni chiari e sodi, fino al collo lungo e
sottile, che ricordava quello di un cigno.
Il
viso era un ovale perfetto dagli zigomi alti, gli occhi immensi e una bocca di
un intenso color carminio che sembrava dipinto, su cui i capelli cascavano come
un velo di scintillante seta nera.
Gli
occhi bruciavano come carboni ardenti, accusatori. Le rivolse un sorriso
sarcastico, mentre si chinava per sfiorarle i seni. Si aspettava una reazione
forte. La creatura sussultò leggermente, ma non disse nulla. Solo quando il suo
tocco si fece più invadente voltò il capo.
Era
fiera come una cavalla di razza, pensò Amerigo, ma non c’era niente e nessuno
che lui non riuscisse a piegare alla sua volontà.
«Tua
sorella ci ha detto che ti chiami Surya» disse.
Alla
parola sorella notò un moto involontario del capo e capì di essere sulla strada
giusta.
«Voglio
proporti un patto» esordì, conciliante. Un nuovo piano aveva preso forma nella
sua mente. «Tua sorella è tanto carina…»
«Lasciala
stare!» sibilò la sirena, fissandolo con odio.
Amerigo
sorrise tra sé. Sarebbe stato più facile del previsto.
«Dunque
sai parlare» commentò, alzando un sopracciglio. «A tua sorella non succederà nulla,
a patto che tu faccia qualcosa per me»
«Non
farò niente per te, vecchio!» Nella sua voce anche l’odio aveva le frequenze di
una musica. Alta, vibrante e cristallina come acqua.
«Come
vuoi.» Alzò le spalle con noncuranza. Poi, rivolto a un servo: «Portatela via.
E trascinate qui davanti la piccolina!»
«Aspetta!»
gridò la sirena.
«Cosa
devo aspettare?»
«Lascia
andare mia sorella. In cambio farò tutto ciò che chiedi.»
Amerigo
sorrise. Ancora una volta era stato tutto fin troppo facile. Per quello che aveva
in mente, una sirena soltanto era più che sufficiente… l’altra sarebbe servita a
facilitargli il compito.
Rolando
si sporse dal finestrino della carrozza per guardare le nubi oscure addensarsi
sull’oceano.
Da
buon uomo di mare sapeva cosa significasse per le navi una tempesta di quelle
dimensioni, eppure in quel momento gli mancava non trovarsi a bordo. La sua
vera vita era l’acqua, la vastità dell’oceano che carezzava la terra e si
ritraeva al ritmo delle maree, proteggendo la vita dei fondali come farebbe una
madre amorosa.
Tirò
le tendine e tornò a fissare il sedile vuoto di fronte a sé con aria cupa.
Amerigo
non era venuto a prenderlo, troppo occupato con questioni di governo. Non che
gli dispiacesse; anzi, quando i soldati incaricati di condurlo a palazzo gli
avevano comunicato che l’avrebbe visto soltanto la sera, al ballo organizzato
in suo onore, si era quasi sentito sollevato.
Non
erano mai andati d’accordo, tra loro c’era troppa differenza d’età e di vedute,
ma aveva dovuto abituarsi all’idea che un giorno sarebbero stati costretti a
lavorare fianco a fianco.
Avrebbe
preferito che suo padre non gli avesse lasciato quell’incombenza. Per come la
vedeva lui, era Amerigo quello più adatto a regnare. Lui era fatto di un’altra
pasta: amava l’avventura, il pericolo, amava viaggiare e sapere che ogni giorno
a bordo poteva essere l’ultimo… Solo così gli sembrava che la vita acquistasse
un senso. Ma non poteva sottrarsi ai suoi doveri. Era l’onore a impedirglielo,
e lui, prima di ogni altra cosa, era un uomo d’onore. Un figlio leale.
Sfiorò
con un dito l’armatura che gli ricopriva il petto, che non toglieva nemmeno di
notte.
Gliel’aveva
regalata il suo anziano padre quando, poco più che ragazzino, si era imbarcato
per la prima volta, ma solo anni dopo aveva compreso fino in fondo il valore di
quel dono.
Donandogli
quell’armatura leggera e sottile, quasi impalpabile, suo padre aveva voluto
proteggerlo. Sottile come la lama di una spada, dura come sfoglia di diamante,
l’armatura non solo l’aveva più volte sottratto alla morte, ma dopo vent’anni
non riportava neanche la più piccola ammaccatura. Una volta una vecchia maga
tailandese si era inchinata al suo cospetto, sussurrando: «Guerriero, che gli
Dei ti benedicano! Questa armatura è forgiata con le pietre dello Stige,
smaltata d’oro da Ares in persona, dio della guerra!».
Ogni
volta che ripensava a quelle parole, Rolando non riusciva a trattenere un moto
di commozione nei confronti di quel padre che gli aveva fatto il dono più
prezioso del mondo, l’invincibilità: finché avesse indossato l’armatura,
Rolando sapeva che niente avrebbe potuto ucciderlo.
Surya
guardava le ancelle che si affaccendavano intorno a lei con un misto di terrore
e curiosità.
In
un certo senso si sentiva attratta da quelle donne bellissime, fasciate di
seta, che volteggiavano per la stanza sistemando fiori negli enormi vasi
d’argento, accendendo candele e curando ogni dettaglio affinché tutto fosse
perfetto per la scena che lei avrebbe
dovuto recitare.
Il
pensiero le provocò una stretta allo stomaco.
Se
la situazione fosse stata diversa, si sarebbe senz’altro goduta quello
spettacolo stupefacente.
Nel
regno marino non esisteva nulla di neanche vagamente paragonabile al fuoco che
scoppiettava nel camino, spandendo intorno a sé una luce ambrata la cui
semplice vicinanza infondeva calore e un piacevole senso di abbandono. Pensò
alla sua coda, che sotto le coperte diventava sempre più spenta e opaca. Sì, in
un’altra occasione si sarebbe decisamente goduta quel soggiorno tra le
misteriose creature che abitavano la terra… In fondo non era forse questo che
cercavano, lei e sua sorella, quando si erano avvicinate alla riva? Uno sguardo
al mondo emerso, alle meraviglie che quelle strane, incomprensibili creature
riuscivano a creare.
Scostò
le coperte per guardare meglio la coda. Ora la sua luce vibrava verso il
bronzo.
Mai,
dacché era nata, aveva visto una coda così scura, se non forse nelle sirene
ultracentenarie, ormai prossime alla morte. Quella parola le provocò un
sussulto. Era questione di pochi giorni e la sua coda sarebbe avvizzita, la
luce si sarebbe fatta sempre più oscura, attraversando tutte le gradazioni del
verde fino a spegnersi per sempre. Dopo ci sarebbero voluti al massimo un paio
di giorni prima che morisse anche la sua metà umana.
Un’ancella
si affrettò verso di lei con un’espressione imbronciata sul bel viso rotondo.
Era
giovanissima, doveva avere l’età di Ananke. Solo il pensiero che sua sorella
presto sarebbe stata salva era in grado di sostenerla, impedendole di cedere al
dolore che le squarciava il petto.
«Copriti!»
la rimbrottò la ragazzina. «Il padrone potrebbe entrare da un momento all’altro
e non deve vedere la coda!»
Surya
obbedì senza replicare, tirando su le lenzuola di seta fino a coprire anche il
seno.
Aveva
notato come la guardavano gli uomini, e quegli sguardi non le piacevano… si
sentiva esposta, oggetto di brame incomprensibili che non promettevano nulla di
buono.
Ignorando
gli sguardi insistenti e curiosi delle donne che le trafficavano intorno, si
sistemò meglio sui cuscini di morbida e fresca seta e chiuse gli occhi. Sentì
confusamente che qualcuno le spazzolava i capelli e che le mettevano della
polvere sul viso, facendola quasi starnutire.
Quando
si sarebbero decise a lasciarla in pace? Ripensò alle parole di sua madre, che
l’aveva sempre messa in guardia dall’eccessiva curiosità.
«Un
giorno potrebbe portarti guai!» le ripeteva da bambina, carezzandole il capo
con le dita affusolate. Aveva ragione.
E
pensare che le sarebbe bastato aspettare! Mancavano solo pochi giorni al
ventiquattro di giugno, la notte di mezza estate in cui a tutte le creature
ibride che animavano il mondo – sirene, licantropi, unicorni – era concesso di
transitare liberamente da uno stato all’altro.
Quella
notte avrebbe potuto assumere le sembianze di una donna e osservare la terra
emersa fino al calar del sole, senza aver paura di essere scoperta. Ma aveva
avuto fretta, e l’aveva pagata cara.
Non
si accorse di essere scivolata nel sonno finché il cigolio della porta che si
apriva non la fece sobbalzare. Allora si rese conto che delle ancelle non c’era
più traccia: era sola, nella stanza, sola a eccezione dell’uomo che stava
entrando in quel momento…
Nell’aprire
la porta, Rolando quasi cadde in avanti. Era più leggera di quanto si fosse
aspettato, oppure ci aveva messo troppa forza… entrambe ipotesi probabili,
visto che quella sera aveva alzato il gomito. Non era da lui bere troppo,
soprattutto durante la navigazione, ma, come aveva detto suo fratello, sulla
terraferma le regole erano diverse.
Quella
era la sua serata, ogni cosa era stata organizzata in suo onore, compresa la
prostituta più bella del regno che lo attendeva paziente in una stanza nell’ala
Nord del palazzo.
Da
sobrio aveva subito scartato quell’idea. Non gli erano mai piaciute le
prostitute, l’idea di ricorrere ai loro servigi lo disgustava. Preferiva
l’amore semplice e pulito delle serve o delle dame di compagnia, giovani donne
che provavano per lui una sincera tenerezza che lo spingeva a proteggerle. E
poi, nel profondo del cuore, sapeva di desiderare un amore appassionato come
quello dei suoi genitori.
Figlio
del re e di una dama di palazzo morta di parto, Rolando aveva evinto l’immenso
amore del padre da come questi l’aveva accolto in seno alla propria famiglia,
regalandogli lo status di figlio legittimo e il suo regno. Da piccolo gli
parlava spesso della madre, e ascoltando le sue parole Rolando si era convinto
che l’amore esistesse davvero.
Tuttavia
Amerigo si era categoricamente rifiutato di far portare via la ragazza.
Sarebbe
stata una vera scortesia, aveva detto, ammiccando tra i fumi del vino. La
signora andava soddisfatta, e se proprio lui non era disponibile… beh, poteva
almeno andare a congedarla di persona, spedendola nelle camere dell’equipaggio
che sicuramente avrebbe apprezzato.
E
quindi eccolo lì, sulla soglia della camera occupata da una sconosciuta.
Entrando,
la penombra lo avvolse come un caldo mantello di velluto. La vista offuscata
gli restituiva moltiplicata la luce tenue delle candele che illuminavano la
stanza, conferendo all’ambiente l’atmosfera irreale di un sogno. Le fiamme che
ardevano nel camino coloravano di porpora l’aria densa d’incenso, arrossandogli
il viso. Il rossore aumentò a dismisura quando mise a fuoco la donna che
giaceva sul letto matrimoniale a baldacchino al centro della stanza.
Si
avvicinò di qualche passo, desiderando vederla meglio. Il caldo e l’alcol
giocavano brutti scherzi… Possibile che al mondo esistesse una fanciulla così
bella?
La
osservò a lungo, immobile. Tanta bellezza lo intimoriva, sembrandogli quasi
sovrannaturale.
Volti
così incantevoli li aveva visti solo sui libri di fiabe che la governante gli
leggeva da bambino o sulle bambole di porcellana che comprava alle figlie delle
sue amanti occasionali.
La
pelle di porcellana delineava un ovale perfetto, ombrato da lunghe ciglia scure
e acceso dal rosso carminio delle labbra. I capelli neri, lunghissimi, erano
sparsi sul cuscino immacolato, le labbra appena schiuse di chi attende
qualcosa.
Qualcosa
però gli suggeriva che la ragazza non stesse realmente dormendo.
I
suoi tratti non avevano l’abbandono tipico del sonno, apparivano tesi, il
respiro spezzato di chi attende e ha timore. Si sedette piano sulla sponda del
letto, avvicinando impercettibilmente il volto a quello di lei. Quando la
fanciulla spalancò gli occhi, per un istante fu come abbagliato dal suo
sguardo. Gli occhi neri, impastati di sonno, erano due laghi dalle acque color
cannella, profondi e vigili.
La
scintilla combattiva che li increspava lo fece sobbalzare.
«Non
ti farò del male» si sentì dire.
Lei
non aveva detto nulla, ma gli era sembrato che il suo volto esprimesse una muta
richiesta di rassicurazione. La ragazza si rilassò impercettibilmente. Senza
parlare, si sistemò meglio sul cuscino, facendo scivolare il velo di seta che
le copriva il seno. Un capezzolo sgusciò fuori, rotondo e perfetto, di un rosa
intenso, e Rolando sentì la saliva andargli di traverso in gola.
La
giovane si occorse del suo turbamento, seguì la traiettoria del suo sguardo e
poi tornò a fissarlo negli occhi, incuriosita. Non sembrava affatto
imbarazzata, come se esporre la sua nudità fosse qualcosa di estremamente
naturale. Poi fece un gesto che lui non si sarebbe mai aspettato da una
cortigiana: sollevò un braccio candido e con la mano gli sfiorò il volto,
carezzando la barba di un paio di giorni.
Quel
contatto sprigionò una sorta di elettricità tra loro.
Era
un gesto incerto, le dita di lei
tremavano a contatto con la sua pelle.
Senza
pensarci su due volte, le afferrò la mano e se la portò al cuore. Gli sembrava
di sentirne il tocco anche sotto i vestiti e l’armatura.
«Come
ti chiami?» chiese. Anelava a sentirla parlare, non riusciva a immaginare che
voce potesse avere una bellezza del genere.
«Surya»
rispose lei. Una voce dolce come il mormorio della risacca.
«Surya»
ripeté, perdendosi nell’abbagliante candore del suo corpo nudo, desiderando
ardentemente scostare le lenzuola per vederla tutta. Denudarle l’ombelico e i
fianchi ondulati per poi infilarsi tra le gambe appena schiuse e assaporare
fino in fondo l’aroma di donna, il suo particolare profumo. Aveva dimenticato
ogni cosa: che lei era una prostituta pagata da suo fratello, che a malapena
conosceva il suo nome, che era pericoloso perdersi in quel modo negli occhi di
una perfetta sconosciuta… il desiderio di baciarla era così intenso da farlo
tremare.
L’attirò
dolcemente a sé, cingendole il collo con una mano, e posò le labbra su quelle
di lei.
Era
l’uomo più bello che avesse mai visto.
Non
ne aveva visti molti, in realtà, ma trovava che si somigliassero tutti quanti.
Tranne lui.
Lui
era grande, alto, leggermente robusto, i capelli biondi e scarmigliati gli
sfioravano le spalle larghe. Gli occhi erano bruni, la bocca carnosa: tutto in
quell’uomo le suggeriva che era buono, persino il suo profumo, aspro e
alcolico, rassicurante. Non sapeva cosa le fosse passato per la testa, non
l’aveva preventivato, ma a un certo punto aveva sentito il bisogno quasi fisico
di toccarlo. A contatto con pelle ruvida del volto, increspata di barba, il suo
cuore si era stretto violentemente.
Una
morsa che faceva male, una sensazione mai provata prima di allora.
Desiderio
e paura mischiati al punto da trasformarsi in qualcos’altro, un impulso cieco
che l’aveva spinta a premere forte le labbra contro quelle dure e screpolate
che lui aveva poggiato sulle sue.
Quando
sentì che l’uomo forzava per entrare, schiuse le labbra e lo accolse.
Fu
come se il mondo esplodesse intorno a loro. Nulla era esistito prima di quel
bacio.
Se
quello era l’amore, oh, era di gran lunga superiore a ogni sua aspettativa!
Niente
di ciò che sapeva in merito l’aveva preparato a quello…
La
mano maschile scese ad accarezzarle il seno, lasciando una scia bruciante su
ogni centimetro di pelle che sfiorava. Nel frattempo l’uomo continuava a
baciarla, carezzandole il viso con l’altra mano, avvicinandosi sempre più.
Ancora qualche centimetro e le sarebbe stato addosso.
Fu
allora che rinsavì, come se qualcuno all’improvviso le avesse urlato di
muoversi.
Lei
non era lì per quello. Lei non era lì per lui, né per se stessa: era per sua
sorella che aveva accettato, era per lei doveva portare a termine quella
missione. Si staccò bruscamente, scostando la mano che le accarezzava il seno.
L’uomo spalancò gli occhi, sorpreso.
Non
avrebbe voluto guardarlo, non mentre faceva quello che stava per fare.
«Cosa…»
mormorò lui, sorpreso.
Sentiva
la bocca incredibilmente secca, parlare le costava fatica.
«È
che… voglio sentirti» balbettò, cercando di evitare il suo sguardo. «Voglio
abbracciarti»
Lui
capì subito e obbedì con un sorriso. Non si era mai sentita così male, così
infelice come mentre lo guardava togliersi l’armatura lucente per rimanere a
torso nudo.
Allora
iniziò a cantare. Era il segnale concordato.
L’espressione
dell’uomo tornò a farsi sorpresa, per poi diventare furibonda quando le guardie
reali irruppero nella stanza, avventandosi su di lui. Si ritrasse, spaventata,
mentre Rolando lottava come una furia, la corazza d’oro che scintillava sul
pavimento, ormai inutile.
Mentre
lo portavano via, le lanciò uno sguardo rabbioso che subito si tramutò in
stupore.
Nel
trambusto, le lenzuola le erano scivolate di dosso, scoprendo la coda.
«L’ho
fatto per mia sorella! Perdonami, se puoi!» urlò Surya, prima di scoppiare a
piangere disperatamente.
Erano
passati due giorni dacché Rolando era stato rinchiuso nelle segrete del
castello.
L’avrebbe
tenuto in vita il tempo necessario a carpirgli i segreti di guerra, poi sarebbe
morto.
Era
il ventiquattro di giugno, la notte in cui alle creature ibride era concesso
mutar forma.
Nella
stessa notte, agli umani era concesso di accedere a un potere infinito ed
eterno, un potere che andava ben oltre le umane possibilità.
Messo
fuori gioco Rolando, Amerigo era diventato il signore incontrastato della
terra. Il suo regno si estendeva in ogni direzione e ogni anno inglobava nuove
terre, nuove genti. Ma non gli bastava.
Lui
bramava a essere anche il signore del cielo e del mare, e per far questo era
necessario un duplice sacrificio: un’aquila, signora del cielo, e una sirena,
dea del mare, da immolare all’altare del monte Kinabalu, sospeso tra cielo e
terra, a picco sul mare.
Una
superba aquila reale era già stata trasporta sul posto, mancava solo la sirena,
e tra poche ore avrebbe avuto luogo il sacrificio che avrebbe messo il mondo ai
suoi piedi.
Sorrise
tra sé quando bussarono alla porta, ma il sorriso gli morì in gola vedendo
l’espressione terrorizzata del giovane paggio.
«Dov’è
lei?» chiese, brusco.
«Non
è più nella sua stanza, sire… Qualcuno l’ha aiutata a fuggire!»
Di
tanto in tanto la luna faceva capolino tra le nubi, quasi volesse indicar loro
il sentiero più breve per raggiungere l’oceano. Poi tornava a nascondersi,
lasciando che le ombre violacee della notte inghiottissero la terra. In sella a
un cavallo rubato, Rolando procedeva a passo d’uomo.
Era
consapevole del pericolo cui li esponeva quell’andatura troppo lenta, ma non
voleva correre il rischio di svegliarla. Era così bella, accarezzata solo dalla
luce flebile e bronzea della coda.
Ormai
aveva smesso quasi completamente di brillare. Sapeva cosa voleva dire, Surya
glielo aveva spiegato quando era corso a liberarla, forte di un’armatura che
aveva perso solo per poche ore.
Quello
stolto di suo fratello non sapeva che allo scoccare delle ventiquattro ore,
l’armatura sarebbe tornata al suo legittimo proprietario.
Quando
l’aveva riavuta con sé, nulla più era stato in grado di fermarlo.“La corazza è
solo un oggetto” gli aveva detto il padre, prima di morire. “La sua vera forza
è dentro di te… Se desideri ardentemente qualcosa, prima che cali il sole
tornerà a esser tua, e ti aiuterà.”
Lui
desiderava liberare la donna che aveva aiutato suo fratello a distruggerlo.
Era
chiusa poche celle più in là, l’aveva riconosciuta dal canto straziante. Grande
era stata la meraviglia quando aveva scoperto la sua vera natura: come molti
uomini di mare, sapeva dell’esistenza delle sirene, ma non ne aveva mai vista
una. L’aveva liberata perché non ce l’aveva con lei. La sua prigionia
dimostrava che non aveva avuto scelta, e lui non poteva dimenticare il bacio
che si erano scambiati, le labbra che gli trasmettevano un calore in grado di
farlo fremere da capo a piedi.
Erano
in viaggio da ore. Quando, in lontananza, udì il rumore delle onde che
s’infrangevano a riva, istintivamente chinò gli occhi sulla sirena che teneva
tra le braccia.
Fu
sorpreso nell’incrociare il suo sguardo brillante, acceso di speranza.
«Acqua…»
mormorò Surya. Ne sentiva il richiamo, così forte che le membra le dolevano.
Riusciva
solo ad abbandonarsi tra le braccia di quell’uomo. Irrazionalmente,
stupidamente, si fidava di lui. Avrebbe scelto di fidarsi di lui anche se
avesse avuto un’altra scelta.
«Ci
siamo» disse Rolando. La sua voce vibrava di sollievo.
Allora
Surya alzò gli occhi e vide l’oceano. Liscio come velluto, infinito, si
stagliava fiero contro un cielo di stelle che si specchiavano in lui. Lacrime
inconsapevoli le rigarono le guance.
L’oceano…
la sua casa, la vita! Senza parlare, Rolando scese da cavallo, la prese in
braccio e camminò fino a che l’acqua non gli arrivò alla vita, immergendo la
coda di Surya centimetro dopo centimetro.
La
sentì fremere e artigliarli la pelle nuda delle braccia con le dita sottili.
«Fa
male?» chiese, incerto.
Il
volto di Surya si aprì in un sorriso dolcissimo in grado di spezzargli il
cuore.
Illuminato
da quegli occhi di carbone, si sentiva fragile e inerme come un bambino.
«Brucia
un po’… ma solo all’inizio.»
Allora
avvenne il miracolo. La coda iniziò a pulsare di luce propria, un intenso
bagliore d’oro e ambra che spandeva attorno a sé un arcobaleno di scintille
colorate. Le sue braccia si aprirono per lasciar andare la sirena. La coda si
dibatteva con furia e grazia, disegnando cerchi e figure che lasciavano
nell’acqua un’impronta profonda, come se l’oceano fosse restio a cancellare il
saluto della figlia ritrovata. Accompagnata da centinaia di stelle fiammanti,
Surya nuotò lontano da lui, mentre all’orizzonte il cielo veniva squarciato da
un’esplosione di fuoco e luce che offuscò anche la luna. All’improvviso ebbe
paura. E se l’avesse persa per sempre?
Poi
ci fu un attimo di buio assoluto: né scintille, né stelle, né luna ornarono più
con il loro riflesso la superficie nera dell’oceano. Era mezzanotte in punto.
L’acqua
davanti a lui si increspò, sollevandosi, e Rolando balzò indietro, spaventato.
Lentamente,
centimetro dopo centimetro, il corpo di Surya emerse dal mare.
Nel
buio sempre meno denso distinse chiaramente le forme dei suoi seni, i fianchi
pieni e ondulati, e poi… Si avvicinò per vedere meglio, incredulo. Gli occhi
gli stavano giocando un brutto scherzo, non c’era altra spiegazione! Il timido
sorriso della donna che amava brillò nell’oscurità, mentre lei si portava una
mano al bassoventre. In quel momento il mare si ritirò scoprendo due gambe
esili e incerte, che tremavano leggermente.
«Ma
tu… tu sei…» balbettò.
«Solo
per stanotte» rispose lei, traballando e finendogli addosso.
«Non
so come reggermi in piedi» si scusò, alzando lo sguardo.
Ma
lui non capiva già più niente. Mentre il corpo nudo di Surya premeva contro il
suo, il desiderio lo invase, prepotente. Voleva quella donna e la voleva lì, in
un momento che non sarebbe tornato.
Si
chinò per baciarla a lungo mentre con una mano frugava dolcemente il miracolo
tra le sue gambe, caldo, umido e profondo. Surya rispose al bacio con passione,
staccandosi dalle sue labbra solo il tempo di un “ti amo” sussurrato a pelle,
pieno di calore, odoroso di mare e primavera.
L’uomo
rispose cingendosi i fianchi con le gambe sottili di lei e penetrandola senza
fretta, con forza, sentendola gemere nella sua bocca. Non si chiedeva cosa ne
sarebbe stato di loro al sorgere del sole, quando l’incantesimo si sarebbe
spezzato.
Sapeva
solo che lì, tra il canto delle onde e il respiro del vento, un uomo e una
donna si stavano donando tutto se stessi, come se passato e il futuro non
esistessero, come se la loro esistenza finisse nell’oceano, in una notte di
mezza estate…
spogliatela! ^^
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